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Una vite che gira bene

Cecily Balmforth (Flora) e Zandy Hull (Miles) - Ph Fabrizio Sansoni

All’Opera di Roma The Turn of the Screw, terza opera di Britten messa in scena da Deborah Warner 

ROMA, 23 settembre 2025 – Avvincente come un thriller dai contorni misteriosi, che ognuno potrà poi interpretare a suo modo. È vero che alla radice del libretto di The Turn of the Screw, scritto da Myfanwy Piper per Benjamin Britten, c’è l’omonimo racconto di Henry James incentrato su una storia di fantasmi: tuttavia, come è una deminutio racchiudere il testo nel collaudato genere della ghost story, sarebbe altresì riduttivo attribuire i meriti di questo capolavoro alla sola matrice letteraria. È invece il magnetismo esercitato dalla musica a tenere avvinto l’ascoltatore, proprio come una vite che si stringe su se stessa. L’organico cameristico – appena diciotto strumenti – si rivela perfetto per una vicenda dalle tinte notturne e dai risvolti oscuri, favorendo un’ideale simbiosi tra quanto accade in scena e ciò che la nostra immaginazione rielabora.

Il soprano Anna Prohaska (Istitutrice) – Ph Fabrizio Sansoni

Il nuovo allestimento romano di questa ‘opera in un prologo e due atti’, andata in scena per la prima volta alla Fenice durante la Biennale Musica del 1954 con la direzione dell’autore, è stato affidato a Deborah Warner, che al Teatro dell’Opera è indissolubilmente associata al mondo di Britten, avendovi già realizzato un memorabile Billy Budd nel 2018 e l’ancor più noto Peter Grimes lo scorso anno. Nello spettacolo, bellissimo a vedersi, la regista inglese riesce a mette a fuoco alcune problematiche dell’adolescenza: quel complicato periodo in cui si compie il passaggio all’età adulta e che coincide, inevitabilmente, con la perdita dell’innocenza.
Grazie alla scena essenziale di Justin Nardella e ai costumi vittoriani di Luca Costigliolo, la Warner punta sull’eleganza visiva: dominano le tinte scure (luci di Jean Kalman) che creano un’atmosfera capace di procedere in sincrono con le quindici variazioni musicali in cui si articola la partitura. Sul fondale s’intravvede un bosco dall’inequivocabile significato metaforico, abitato dai fantasmi del servitore Quint e della precedente istitutrice Miss Jessel. Gli altri quattro personaggi “viventi” (la nuova istitutrice, la vecchia governante, i due bambini) agiscono invece in un ambiente domestico dove i pochissimi oggetti – un pianoforte e una scrivania, una lavagna e un letto – compaiono solo al momento opportuno. Grande merito della regia è comunque quello di saper assecondare l’andamento incalzante della musica attraverso gli spostamenti dei personaggi (spesso fulminei, come nel caso dei bambini), alternandoli alla scena vuota, e tali da creare un’inquietante suspence.

L’aspetto visivo, da solo, però non basterebbe senza un’esecuzione musicale all’altezza del compito. Puntando sapientemente sulla timbrica strumentale, il direttore Ben Glassberg ne ha tratto suoni spettrali attraverso la millimetrica precisione con cui ha guidato i pochi strumentisti qui richiesti, che lo hanno corrisposto benissimo: nell’alternanza di concitazione e rarefazioni, spesso tradotte in vere e proprie pause silenziose, si dischiude così quello spazio che fa volare l’immaginazione di chi ascolta.
Al centro, la coppia dei bambini: due meraviglie provenienti da college inglesi. Nei panni di Flora, la sorellina, un’incredibile Cecily Balmforth – dieci anni appena – che non solo canta, ma è talmente disinvolta e atletica da riuscire a compiere con massima naturalezza acrobazie che lasciano sbalorditi. Il fratello Miles era interpretato da Zandy Hull, dodici anni, anche lui capace di muoversi come un attore consumato e di comunicare le lacerazioni che lo devastano (e lo porteranno a soccombere nel tragico epilogo).
La componente adulta del cast aveva nel soprano Anna Prohaska, pur senza una voce particolarmente sostanziosa, una protagonista espressiva ed emotivamente coinvolta: è lei l’insegnante cui vengono affidati i bambini, combattuta tra un sincero affetto nei confronti dei piccoli e i timori sulla propria capacità di riuscire ad aiutarli. Il ruolo di Mrs Grose era interpretato invece dal soprano Emma Bell, che per disegnare l’anziana governante ha puntato soprattutto sulle capacità sceniche, compensando così una certa usura vocale.
Più incisivi, però, i due fantasmi. Con un timbro diafano e quasi trasparente – molto simile a quello di Peter Pears, destinatario e interprete dei ruoli tenorili di Britten – svettava Ian Bostridge: sono perfette la sua interpretazione del Prologo e, poi, la sinuosa incarnazione dello spettro di Quint, il domestico che vuole impossessarsi del piccolo Miles. In qualità di fantasma della precedente istitutrice, Christine Rice è stata in grado di far intuire la torbida vicenda che verosimilmente ha vissuto in vita, grazie a un sensuale timbro ombreggiato.

Teatro non esaurito, ma pubblico entusiasta di fronte a un’opera straordinaria. D’altronde nel 1933 il non ancora ventenne Britten, terminata la lettura del racconto di James, annotava nel proprio diario che si trattava di un «capolavoro incredibile»: si era già reso conto che avrebbe potuto replicarlo in musica? Ventun anni dopo, ormai quarantenne, sarebbe arrivata la conferma.

Giulia  Vannoni