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Una farsa semiseria

Lisette Oropesa - Ph Amati-Bacciardi

Al Rossini Opera Festival la nuova edizione di Adina viene ambientata in una Inghilterra coloniale, con qualche riferimento a Lewis Carroll  

PESARO, 12 agosto 2018 – Anche se con un carattere abbastanza vicino al genere semiserio, Adina viene definita ‘farsa in un atto’. Non ha però i tratti smaccatamente comici di altri titoli rossiniani e ad allontanarla dalla dimensione farsesca contribuisce l’agnizione finale, dal retrogusto un po’ malinconico: il Califo – con una effe sola, come lo definisce il libretto di Gherardo Bevilacqua Aldobrandini – scopre che la promessa sposa in realtà è sua figlia, avuta in gioventù da una schiava. Come succede per le opere ‘di mezzo carattere’, però, sono la realizzazione scenica e l’esecuzione musicale a far pendere da un lato l’ago della bilancia.

La regista Rosetta Cucchi, per questo nuovo allestimento del ROF (in coproduzione con il Wexford Festival Opera), ha optato per una chiave smaccatamente comica, mescolando fin troppi elementi: dalle suggestioni coloniali a Lewis Carroll fino alla commedia napoletana. Prima dell’inizio della rappresentazione si viene accolti nel foyer del Teatro Rossini da figuranti – che poi rivedremo in palcoscenico – con indosso gli spiritosi abiti realizzati da Claudia Pernigotti. Il bravissimo scenografo Tiziano Santi realizza poi una gigantesca torta nuziale a tre piani – attorno alla quale armeggia un esercito di cuochi – che nella parte inferiore cela l’abitazione di Califo e in cima ospita l’immancabile coppia di sposini: una sorta di miraggio per un matrimonio difficile da realizzare oppure l’anticipazione di un futuro che si prospetta particolarmente litigioso. Scompare quasi del tutto ogni ambientazione turca, che nelle intenzioni del librettista doveva rappresentare il vero elemento di comicità, per lasciar posto a suggestioni d’altro tipo, soprattutto legate al cinema degli anni cinquanta-sessanta, con gli scagnozzi del temibile Califo trasformati in lugubri figuri neri, vistosamente armati.

Il limite di quest’opera, andata in scena a Lisbona nel 1826 (ma composta assai prima), è che, alla resa dei conti, non fa ridere: qualche occasione di sorriso viene fornita da Rossini più che altro in certi autoimprestiti, che innescano rimandi a contesti ben più divertenti (basterebbe pensare alla fulminea citazione della cavatina di Dandini, forse il momento più comico della Cenerentola, che ritroviamo nella sortita del Califo). Se l’intenzione registica era quella d’imprimere un ritmo scoppiettante, la lettura musicale di Diego Matheuz, alla guida di una corretta Orchestra Sinfonica Rossini, indulgeva più che altro su toni malinconici e larmoyant, non sempre in sintonia con le immagini, mentre gli interpreti si sono adoperati al loro meglio per assecondare la lettura scenica.

Nel cast si è imposta la bella Lisette Oropesa, una protagonista piena di verve scenica non meno che di grazia canora: il soprano statunitense ha sfoderato un’ottima dizione e una ricca tavolozza di sfumature vocali che le ha permesso di delineare il personaggio di Adina non come una semplice soubrette, imprimendole il giusto tono ironico-patetico, a partire dalla cavatina Fragolette fortunate. Nei panni del suo innamorato, il tenore sudafricano Levy Sekgapane ha sostenuto con sicurezza il ruolo di Selim, disegnando un personaggio simpatico e un po’ ingenuo. Califo, il personaggio che subisce la maggiore trasformazione psicologica – da aspirante marito della protagonista, scopre di essere suo padre – era invece interpretato dal baritono Vito Priante: aspetto severo e canto fin troppo cauto, che lo ha portato a un fraseggio corretto ma lievemente monocorde. Completavano il cast, nei due personaggi più marcatamente comici, un puntuale ma non saporitissimo Davide Giangregorio, come Mustafà, e Matteo Macchioni, dall’emissione un po’ scompaginata nei panni di Alì, che la regia trasforma in una sorta di eunuco. Il Coro del Teatro della Fortuna ha affrontato con impegno una prova che non è solo vocale, ma richiede anche notevole impegno scenico.

Grande successo per tutti, almeno la sera della prima: il pubblico si è molto divertito con questo spettacolo. Ma la complessità di Rossini – tanto più quello minore – pretenderebbe forse un maggior scandaglio, soprattutto se si vuole intrecciare la sua musica con un maestro del nonsense come Carroll: autori entrambi che, dietro l’innocua superficie, nascondono ben altro.

Giulia Vannoni