Una Babele chiamata Università

    I NUMERI non tradiscono, non tradiscono mai. Tradiscono meno dell’impressione – seppur forte – che di riminesi doc tra le aule del Polo universitario nostrano ce ne sono veramente pochi. Il presidene Giorgio Cantelli Forti, recentemente aveva parlato di vere e proprie colonie di sassaresi, pugliesi e veneti. Ciò che salta all’occhio è però l’occhio a mandorla. Invasione? No ma di certo è una bella e cospicua fetta della realtà universitaria riminese. Quest’anno gli immatricolati extracomunitari sono stati 102, con una buona componente arrivata dai paesi dell’est e dell’area russa, una parte dell’Albania e dal Marocco e naturalmente dal Sol levante.
    “Gli stranieri sono una presenza costante nell’ateneo riminese, almeno dal 2000 - commenta Michele Saccone, Responsabile area servizi didattica e studenti -. È difficile fare una stima precisa perché nel tempo i dati hanno assunto valori semantici diversi. Basti pensare ai paesi che sono entrati in Europa, i quali studenti per questo motivo, non sono più, per definizione, degli extracomunitari. In generale però, possiamo definire la presenza di questi giovani come una costante, che cresce, come fenomeno, con il crescere di tutta la realtà universitaria.

    Ci sono corsi che tirano di più, rispetto ad altri?
    “Quest’anno c’è stato un boom, che possiamo considerare anch’esso in linea con l’incremento generale delle immatricolazioni nel Polo Riminese (ricordiamo + 40%, ndr), però non possiamo dire che ci sono dei corsi che vanno per la maggiore. Gli studenti stranieri sono omogeneamente distribuiti sui vari corsi di laurea”.

    Chi sono gli studenti stranieri?
    “Ci sono diversi tipi di studenti stranieri. Ci sono gli extracomunitari, quei 102 immatricolati di quest’anno, 307 in totale. Poi ci sono i comunitari e per finire una quarantina le quali domande ci sono pervenute tramite ambasciate. Parliamo di ragazzi che hanno ricevuto dal loro paese un permesso di studio. Per loro il percorso è diverso, poiché in dotazione ci arriva anche una ‘dichiarazione di valore’, cioè un documento che certifica lo stato e il percorso formativo dello studente”.

    Sono richiesti requisiti particolari che limitano l’accesso agli stranieri?
    “Di norma no. È fondamentale, però, che lo studente conosca la lingua italiana, ossia che abbia le potenzialità per seguire il corso di studio. Per questo motivo tutti gli studenti devono sostenere un test di lingua italiana. Poi le cose cambiano da facoltà in facoltà e di caso in caso”.

    Cosa vuol dire?
    “Vuol dire che se uno studente, per esempio, arriva da un corso universitario per il quale – nel suo paese – gli era stato richiesto un test di ammissione, il classico corso a numero chiuso, tanto per intenderci, allora anche le nostre facoltà dovranno testare la preparazione dello studente. Stiamo parlando di una prova i quali contenuti sono a discrezione delle diverse facoltà, possono dipendere, infatti, dagli insegnamenti dei corsi”.

    Quali sono i problemi principali affrontati da questi studenti?
    “Sicuramente il primo scoglio da superare è quello della lingua. Nel tempo ci siamo accorti che il gruppo dei cinesi è quello che ha più difficoltà nell’integrazione linguistica. Conoscono poco l’inglese (fatte le dovute eccezzioni) e hanno un sistema linguistico molto diverso dal nostro. Proprio per questo abbiamo redatto una sorta di guida al Campus interamente in cinese. Snella, di appena 17 pagine, ha il compito di fornire agli studenti le informazioni base sui servizi e sulla vita del Polo, compresa di cartina per tutti gli spostamenti. Poi ci sono problemi di altro tipo, più legati alla capacità dei ragazzi di relazionarsi con il mondo che li circonda, con la vita studentesca e culturale”.

    Avete messo in atto qualche iniziativa tagliata ad hoc sugli studenti stranieri
    “Abbiamo il programma Marco Polo. Tra le altre cose, quest’anno Rimini, è stata scelta come base per il progetto dell’ateneo bolognese e diretto proprio agli studenti cinesi intenzionati a frequentare le nostre università”.

    E per finire…
    Ma gli stranieri possono arrivare in “terra nostra” anche attraverso progetti di interscambio con sedi universitarie partner della riminese. Parliamo dei famosi: Erasmus e Overseas. Anche per questi studenti il problema principale è la lingua, che anche il questo caso il Cliro cerca di risolvere repentinamente. Anche gli studenti Erasmus, infatti, offre gratuitamente 50 ore di lezione frontale (3 volte a settimana, con lezioni due ore al giorno) con due cicli l’anno, uno che comincia in settembre, l’altro in febbraio. Per ogni ciclo di lezioni viene fissata una data in cui è possibile effettuare un test di livello, per la verifica preliminare della conoscenza della lingua italiana.

    (Angela De Rubeis)

    “Come in un quadro colorato: è difficile scegliere la cornice”.
    Intervista allo studente Xyu Yang

    “IO sono Xyu, e sono arrivato in Italia quasi 18 anni fa”. Xyu Yang vive a Rimini dal 1990, aveva appena nove anni e in italiano non sapeva dire nemmeno la parola “ciao”. I suoi genitori sono originari di una piccola regione dell’Indocina e andarono via dal piccolo paese che sorgeva a ridosso di “una grande e verde montagna”, ricorda malinconicamente Xyu, perchè il padre pastore aveva perso tutto. “Il lavoro di tre generazioni di Yang è andato in fumo in una sola notte. Potevamo ricominciare nel nostro paese ma mio padre era troppo demoralizzato e siamo andati via”. Oggi Xyu è uno studente universitario anormalmente straniero perchè parla benissimo l’italiano e non ha problemi di inserimento o apprendimento. Possiamo definirlo un privilegiato, perchè conosce abbastanza bene tutti e due i mondi che vogliamo indagare.
    Chiediamo a lui quali potrebbero essere i problemi di un giovane studente straniero nel Polo di Rimini.
    “I problemi sono tanti, ma il primo è sicuramente la lingua. In questo caso il livello della problematicità cambia in base al paese di provenienza e dal percorso scolastico che si è fatto in precedenza. Io mi ricordo, la mia personalissima difficoltà, di bambino di nove anni che non riusciva a farsi capire, e la mia incapacità di assimilare – anche a livello grafico – quei simboli che tutti chiamavano “alfabeto”. Poi c’è l’approccio culturale, quel bagaglio di conoscenze, quel modo di fare colazione, di pregare, di rivolgersi al padre, di parlare che non vedi più in niente e nessuno, è un’esperienza disorientante”.

    Questo tuo disorientamento non può dipendere dal fatto che il tuo primo impatto con l’Italia lo hai avuto quando eri appena un bambino?
    Forse hai ragione, però posso dirti che un certo disorientamento lo leggo anche negli occhi di molti ragazzi adulti. Naturalmente un ragazzo che consapevolmente si sposta in una città, e con una maturità tale da portarlo a fare un percorso universitario affronterà con più coraggio e responsabilità il suo percorso, ma credo che un lampo di paura lo abbiamo avuto tutti”.
    Pensi che le attività del Polo siano adeguate alle necessità di questa tipologia di studenti?
    “Credo molto in questa Università, credo nei suoi sforzi, anche se non possono dirsi del tutto rispondenti alle esigenze. Ma non è una colpa. Quello che frettolosamente viene definito il mondo degli ‘stranieri’ il Italia prima, e in Università dopo, è variegato, complesso, composto da piccoli gruppi e da singoli. È difficile intraprendere delle politiche mirate, trovare una cornice che stia bene su un quadro dai mille colori, possono starci bene tutte come nessuna. Anche trovarla, ragionarci sopra diventa difficoltoso e richiede tempo. Ma un buon punto di partenza è l’aiuto per l’apprendimento della lingua nonché il fatto che stiamo parlando di giovani”.

    Con questo che cosa intendi?
    “Dico che i giovani italiani ci danno una buona mano. Parliamo di una generazione abituata all’altro, che ha avuto il compagno di banco tunisino o albanese e che ne ha sperimentato la conoscenza nella crescita, che è stato con lui e non ne ha visto la diversità. E sono convinto che la prossima generazione andrà ancora meglio”.

    Ci sono delle colonie “nazionali” dentro le aule e nei corridoi?
    “Si e no. Chi ha più problemi di comunicazione tende a fare gruppo, chi ne ha meno si inserisce con facilità. Tutto cambia da caso a caso. Due anni fa, ho incontrato un gruppo di ragazze cinesi a Rimini da poco. Loro tendevano a fare gruppo, ma il mio tramite le ha aiutate ad aprirsi e per me è stato bellissimo confrontarmi con persone che si ricordavano di quel particolare modo di mangiare, di commemorare i morti e anche solo di guardare, è stato un tuffo nei miei sbiaditi ricordi”. Una di queste ragazze si chiama Lin. Xyu la sposerà subito dopo la laurea. (a.d.r.)