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Un vescovo fieramente antinapoleonico

Subito dopo l’arrivo di Napoleone la città rimase senza guida, perché abbandonarono la loro residenza sia il governatore pontificio Luigi Brosi sia il vescovo Ferretti, inseguito da un ordine di cattura, perché accusato di aver sollecitato i fedeli a opporsi alle armate francesi.

Il vescovo fu così costretto a rientrare in diocesi e a offrire al generale Perin un “suntuoso banchetto” per celebrare l’annessione della Cispadana alla Cisalpina. Nel naufragio dello Stato Pontificio, da quel momento il vescovo cercò di stabilire rapporti non conflittuali con gli occupanti e di tener quiete le popolazioni, continuando al tempo stesso a mostrare attraverso la predicazione e le lettere pastorali (quella del dicembre del 1797 dovette intitolarsi Il cittadino Ferretti, vescovo di Rimini al suo dilettissimo popolo) la superiorità dell’insegnamento della Chiesa riguardo alla morale, al diritto, alla politica. Il tono conciliante mirava anche a impedire che si offrissero pretesti per spietate repressioni, come quelle che erano avvenute a Lugo di Romagna.

Nella costituzione della Cispadana Napoleone, in contrasto con i più estremisti dei giacobini, aveva preteso che venisse dichiarato il pieno rispetto della religione cattolica e la proibizione di ogni altro culto pubblico. In realtà, per i territori appartenenti allo Stato Pontificio il cambiamento non era solo politico, ma aveva pesanti ricadute anche sul piano ecclesiale: furono soppressi quattordici conventi dentro e fuori le mura della città, viene cambiato il nome delle porte e delle vie della città dedicate ai santi, vengono eliminate le immunità della chiesa, sono innalzati sulle due piazze maggiori gli alberi della libertà, al canto di inni antireligiosi e anticlericali. I due monumenti dei papi che erano in città – la statua bronzea di Paolo V in piazza della Fontana e la statua di gesso di Pio VI nella chiesa di San Marino – , per non essere distrutti dovettero rinunciare alla tiara, alle chiavi e al nome, per indossare una più modesta mitria vescovile e trasformarsi in San Gaudenzio, tollerato dagli invasori in quanto patrono della città.

L’impegno di pacificazione del vescovo Ferretti non fu sufficiente a placare il malcontento degli abitanti delle campagne e dei gruppi sociali che più risentivano delle imposizioni straordinarie, delle requisizioni e della carestia, non potendo più contare sul soccorso dell’annona e sulla beneficenza del pontefice; malcontento accresciuto dalle spogliazioni sistematiche delle chiese da parte delle truppe francesi.

Scoppiarono ovunque focolai di rivolta, che provocarono feroci azioni di rappresaglia: a Saludecio l’intervento del parroco don Domenico Fronzoni riuscì a salvare i parrocchiani, ma Tavoleto non fu altrettanto fortunata e gli abitanti “rimasero senza chiesa, senza sacri altari, senza casa da abitare, senza sostanze e vesti, perché tutto era stato consumato dal fuoco” (la descrizione è in una lettera del parroco don Pietro Galluzzi).

Nel febbraio dell’anno successivo, mentre Napoleone è assente dall’Italia, richiamato in patria dal Direttorio, il generale Berthier, diretto a Roma, alloggia le sue truppe nella cattedrale di Santa Colomba, provocando danni tanto gravi da renderla inagibile alle funzioni religiose. Il cronista Zanotti descrive con efficacia il turbamento della popolazione di fronte allo scempio di operai affaccendati ad “atterrare altari e mausolei, a estrarre i cadaveri defunti dei pastori della chiesa, di cardinali e di molti altri distinti personaggi che vi riposavano in pace”. Entrato a Roma, Berthier, dopo aver imposto ostaggi e gravose contribuzioni, dichiara decaduto il potere temporale del papa. I cardinali sono costretti a cantare il Te Deum, per la proclamazione della Repubblica romana, Pio VI viene portato prigioniero a Siena, in seguito sarà condotto a Parma, a Torino e quindi in Francia dove morirà nell’agosto del 1799.

A Rimini viene chiuso il seminario, i domenicani vengono spostati a Forlì e i minori conventuali a Pesaro. Per sopperire alle necessità dell’erario venne confiscato e messo all’asta gran parte del patrimonio della chiesa: si calcola che durante il triennio 1797-99 ci sia stato un trasferimento di proprietà pari a un sesto dell’intera superficie catastale.
Nonostante tutto, l’entrata in vigore degli ordinamenti della repubblica Cispadana (poi Cisalpina) trovò favorevole anche una minoranza del clero, convinta che il nuovo assetto politico potesse giovare a una riforma della Chiesa.

Rimini nell’estate del 1798 vide la fondazione di un Circolo costituzionale – del quale facevano parte laici e chierici – che si proponeva, utilizzando un linguaggio che voleva essere sobrio e razionale, di provocare un confronto tra istanze politiche e religiose, per trasformare l’opinione pubblica antigiacobina in “attivo spirito pubblico”. Vi tenne due appassionate conferenze anche don Gaetano Vitali, parroco di Montefiore Conca; in esse veniva difeso il giuramento di fedeltà alla repubblica Cisalpina e si sosteneva il principio della libertà religiosa. L’attività del circolo durò pochissimi mesi, perché fu fieramente osteggiata dalla maggior parte del clero e rimase ininfluente sui fedeli, soprattutto sui ceti popolari, ostili sia nei confronti dei Francesi che della nuova classe dirigente. Non solo: all’interno del Circolo stesso era diventata sempre più insanabile la spaccatura tra i giacobini più oltranzisti, sempre più anticlericali, e i moderati, preoccupati dello scarso consenso della popolazione.
Come la pensasse la gente comune riguardo al nuovo assetto riuscì chiaro nell’aprile del 1799, quando contadini e proprietari terrieri obbligarono la municipalità a concedere il permesso di portare in processione l’immagine della Madonna dell’Acqua custodita nel Tempio Malatestiano. La processione avrebbe dovuto svolgersi solo all’interno dei chiostri, ma la folla, numerosissima, travolse il cordone delle guardie nazionali e spinse i sacerdoti a uscire per le strade… (17 – continua)

Cinzia Montevecchi