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Un Trittico trasformato in dittico

Il tabarro - Ph Fabrizio Sansoni

Al Teatro dell’Opera di Roma Il tabarro di Puccini in un inedito abbinamento con Il castello del principe Barbablù di Bartók 

ROMA, 16 aprile 2023 – Il lieto fine promesso dalle favole esiste solo nei sogni o, forse, nemmeno lì. È difficile scorgerlo in Barbablù di Perrault e – meno che mai – nelle successive rielaborazioni musicali, come quella ideata da Béla Balázs per Bartók, sempre più debitrici di significati psicanalitici. Non trova ovviamente spazio neppure nel Tabarro pucciniano, anche se Giorgetta aspirerebbe a fuggire dallo squallore quotidiano in cui è costretta a vivere, tanto che – nello spettacolo di Johannes Erath – per la sua ultima apparizione in scena, dove scoprirà il cadavere dell’amante, indossa un abito favoloso. Da sogno, certo, e quindi tale da accentuare il contrasto stridente con la tragedia appena consumata.

Il mezzosoprano Szilvia Vörös (Judit) e il basso Mikhail Petrenko (Barbablù) – Ph Fabrizio Sansoni

Dal nuovo allestimento dellOpera di Roma, che abbina il primo pannello del Trittico al Castello del principe Barbablù di Bartók (questa destrutturazione riguarderà, nelle prossime stagioni, anche Suor Angelica e Gianni Schicchi, entrambi accostati ad altri atti unici), i sogni sembrano dunque cancellati: semmai, sono divenuti incubi.
L’intenzione è chiara, fin da quando si solleva il sipario e appare un fondale dipinto con uno scenario fiabesco, fra i più iconici. Ma dura appena un attimo. Prontamente la tela viene riposta e sostituita da tubi innocenti, oggetti abbandonati, personaggi in tuta da lavoro che riconducono alla dura realtà degli scaricatori sulla Senna: individui emarginati, qui visti però come maestranze teatrali, per non dimenticare che il palcoscenico resta lo spazio in cui si materializzano i sogni. Lo sottolinea la coppia di amanti, indicata nel libretto di Giuseppe Adami per Puccini, che – mentre si scambia effusioni – osserva i drammatici accadimenti come fossero uno spettacolo.

Ancora più essenziale la cornice per Barbablù: lui siede a un tavolo e Judit, l’ultima moglie appena sposata, scende da un’impalcatura dove sette giovanotti, in una sorte di moltiplicazione del protagonista maschile, sembrano trattenerla. Sullo sfondo veli leggeri, mossi dal vento, nascondono i terribili segreti che si celano fra le mura del castello.
Nella regia di Erath si legge il tentativo di ricondurre alla stagione simbolista due lavori che hanno avuto entrambi la prima esecuzione nel 1918: in Puccini le proiezioni del lieve moto ondoso più che alla Senna sembrano riconnettersi a La mer di Debussy, così come le piccole danzatrici in tutù e le figure femminili – che nell’immaginario di Giorgetta rappresentano emblematicamente Parigi – sono destinate a diventare le mogli di Barbablù. Non compare invece il simbolo più ovvio: quel tabarro che dà il titolo al fulminante atto unico pucciniano.

Al di là della cornice visuale, ben valorizzata dalle luci di Alessandro Carletti (firmano le scene Katrin Connan e i costumi Noëlle Blancpain), tutta l’attenzione registica è concentrata sulle dinamiche delle coppie protagoniste del dittico, seppure dalle caratteristiche così diverse: la prima si è frantumata dopo la morte del figlioletto, la seconda è gravata dall’ombra di inquietanti fantasmi. Ed è proprio qui che si dovrebbe avvertire la presenza della musica. Michele Mariotti fa suonare bene l’orchestra del Teatro dell’Opera, pur senza estrarre addentellati sonori dalle due partiture: riesce a esaltare la cantabilità di Puccini (restano però in secondo piano gli aspetti più crudi e drammatici) e restituisce certe asprezze della scrittura di Bartók (senza tuttavia calarle in quelle inquietudini musicali archetipiche del primo novecento). Sostiene poi adeguatamente i cantanti, che a loro volta sanno ben assecondare il disegno registico.

Maria Agresta e Gregory Kunde, nel Tabarro, interpretano i loro personaggi eliminandone ogni retaggio verista: il soprano dà voce con grande sicurezza a una fragile Giorgetta, mentre il maturo tenore americano – colto in una serata di grazia – disegna con emissione robusta e insieme suadente un uomo debole, ma capace di esercitare fascino su una donna inquieta e angosciata. Meno in linea con questa lettura la prova del baritono Luca Salsi, un Michele fin troppo granitico. Tra i personaggi di fianco spicca Enkelejda Shkoza nei panni della Frugola, per la sua personalità debordante ma adatta a una clochard che rovista nell’immondizia, seppure animata dal sogno di una vita migliore. Apprezzabile anche il tenore Marco Miglietta, nella breve apparizione del venditore di canzonette.

In Bartók il basso Mikhail Petrenko è apparso duttile in scena, ma con i limiti di una voce tendente a stimbrarsi. Bravissima invece il mezzosoprano Szilvia Vörös, che affronta con sicurezza una scrittura molto impegnativa, disegnando una Judit risoluta nel pretendere dal marito la verità sulle mogli che l’hanno preceduta. Si rivelerà però una strategia perdente: come sembra suggerire la favola, a volte è meglio non conoscere tutto e lasciare un po’ di spazio al non detto. Così i sogni possono vivere più a lungo, senza diventare subito incubi.

Giulia Vannoni