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Capolavoro di rara esecuzione

Una scena del Don Carlo - PH Luciano Romano

Don Carlo di Verdi, affidato a un cast di grande livello, ha inaugurato  la stagione operistica del Teatro San Carlo di Napoli 

NAPOLI, 1 dicembre 2022 – Forse è il massimo capolavoro di Verdi. Per le passioni contrastanti che agitano i personaggi, per la capacità di configurare il crudele orizzonte politico che ne fa da cornice, per l’intreccio indissolubile tra pubblico e privato d’inquietante modernità, ma soprattutto per soluzioni musicali potentissime e innovative. Opera, però, fra le più difficili da allestire: Don Carlo richiede un imponente sforzo produttivo, che la condanna a restare nel limbo delle rarità.
È stato il Teatro San Carlo di Napoli a sceglierlo come titolo inaugurale di stagione, con uno spettacolo all’altezza dell’ambizioso intento. L’edizione proposta è quella con libretto in italiano nata per Modena nel 1886, in cinque atti, in luogo della più condensata (ma meno efficace sul piano drammaturgico) edizione in quattro atti. A complicare il quadro infatti intervengono pure le numerose versioni – sia francesi che italiane – realizzate dallo stesso Verdi, poi talvolta combinate fra loro nella prassi esecutiva.

Ludovic Tézier (Rodrigo di Posa), Elīna Garanča (Eboli) – PH Luciano Romano

Il nuovo allestimento del regista Claus Guth si affida a una scena (firmata da Etienne Pluss) spoglia ed essenziale, sempre scura, versatile nel configurare esterni e interni con l’aggiunta di pochi elementi: alberi che calano dall’alto nel caso della foresta di Fontainebleau, sontuosi lampadari che s’innalzano nel palazzo reale, un’elegante dormeuse negli appartamenti di Filippo II per adombrare la sua liaison con la principessa Eboli. Ma è soprattutto il celebre dipinto di Goya che ritrae la famiglia reale di Carlo IV, appeso sghembo nella parete di fondo, a porre l’accento sulla pesante eredità che grava sul protagonista; e, alla fine, Don Carlo getterà a terra il quadro – divenuto ormai del tutto nero – calpestandolo rabbiosamente. Senza tempo i minimalisti costumi di Petra Reinhardt, che echeggiano vagamente il seicento, cornice della vicenda storica.

La regia scava nel tormentato retroterra psicanalitico del protagonista: storicamente il personaggio oscillava tra instabilità mentale e violenza, laddove Verdi (e Schiller, che ne è la fonte letteraria) tende a idealizzare, pur senza smorzarle, certe caratterialità del personaggio. Straziante l’immagine di lui sdraiato a terra, in posizione fetale, che immagina la regina sua madre – qui però con le sembianze dell’amata Elisabetta – morta pochi giorni dopo il parto. Tuttavia, non confidando abbastanza nel potere evocativo della musica, Guth ha sentito il bisogno di contrappuntare la messinscena con dei filmati (di Roland Horvat, peraltro ben fatti) e riproiettati ostinatamente, dove si vedono Carlo e Rodrigo bambini mentre giocano, nel tentativo di mostrare come la loro amicizia – benché poi tragicamente conclusa – possieda quei tratti d’innocenza prerogativa solo dell’infanzia. E, perseverando nell’horror vacui, il regista aggiunge un onnipresente mimo, una sorta di giullare nano che sembra uscito dall’iconografia spagnola, questa volta da Velázquez (l’ottimo attore Fabián Augusto Gómez) e non certo previsto nelle dramatis personae.

Ma questo Don Carlo si gioca soprattutto sul piano musicale: non per la lettura di Juraj Valčuha, che riesce a cogliere solo i contrasti dinamici più epidermici della partitura senza rendere giustizia alla magnifica orchestrazione di Verdi, e che diventa – atto dopo atto – sempre più piatta e generica, ma grazie a un cast davvero di primo piano.

Protagonista il tenore Matthew Polenzani – lo spettacolo è costruito da Guth soprattutto in sua funzione – che riesce a rendere tutta la fragilità di un protagonista antieroico, non solo assecondando i desiderata scenici, ma attraverso un’emissione sicura e penetrante, tanto più che l’aggiunta del primo atto accresce notevolmente il suo impegno. Il soprano Ailyn Pérez è una Elisabetta che, grazie a una vocalità scura e omogenea, delinea fin dal primo atto un personaggio dolente e, poi, sempre più ripiegato su se stesso. Da parte sua Michele Pertusi sa configurare un Filippo II austero e tetragono, in cui si avverte tutta la dolorosa solitudine del potere; e se la voce mostra segni di usura, la linea si mantiene impeccabile (trillo compreso nella scena dell’autodafé, spianato da quasi tutti i bassi) in virtù dei suoi preziosi trascorsi rossiniani.
Autentico fuoriclasse è poi il baritono francese Ludovic Tézier: il suo Rodrigo può contare su una colonna di suono morbida e compatta a tutte le altezze, un articolato scandaglio dei colori e degli accenti, insomma un fraseggio davvero capace di restituire la parola scenica verdiana. Difficile, poi, pensare a una Eboli più seducente del mezzosoprano lettone Elīna Garanča: abilità assoluta nella gestione vocale in termini dinamici (mezzevoci all’apparenza senza peso e, al tempo stesso, perfettamente galleggianti sopra l’orchestra), colorature di stupefacente scorrevolezza (quasi spudorato il melisma della cadenza nella Canzone del velo), catturante sensualità timbrica anche nell’istante del pentimento finale.
Meno a fuoco Alexander Tsymbalyuk, un basso forse troppo giovane (ma è la rilettura registica a volerlo tale) per incutere il terrore che dovrebbe promanare dal Grande Inquisitore. Più efficace, come fantasma di Carlo V in abito da frate, un altro basso, il tenebroso Giorgi Manoshvili, ideale nell’esprimere l’angoscia dell’aldilà. Non passa inosservata – attraversa il palcoscenico indossando un manto azzurro da Madonna – l’ottima Maria Sardaryan, come Voce dal cielo, che nel suo brevissimo ma difficile intervento invoca la misericordia ultraterrena al termine della scena dell’autodafé. E da ricordare ancora Cassandre Berthon, nel ruolo en travesti del paggio Tebaldo, sorta di folletto in perenne movimento che contrappuntava la mesta Elisabetta.

Insomma uno spettacolo da cui si esce appagati e con la netta consapevolezza di aver ascoltato un capolavoro. Una sensazione già ben chiara dopo il duetto fra basso e baritono che conclude il secondo atto, forse la pagina più straordinaria mai scritta da Verdi. E se non la più bella, certo la più potente.

Giulia Vannoni