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Ucraina Rimini, la guerra un anno dopo

Come stiamo gestendo il complesso processo di accoglienza dei tanti profughi ucraini giunti a Rimini quando ci avviciniamo all’undicesimo mese di conflitto? L’analisi, tra ostacoli e difficoltà

Quasi un anno di guerra alle porte dell’Europa. Era lo scorso febbraio, infatti, quando la Russia di Putin ha cominciato l’invasione armata dell’Ucraina, gettando sul mondo la paura che la Storia stesse drammaticamente tornando ai periodi più oscuri dell’epoca moderna. Le conseguenze immediate sull’Italia e sul nostro territorio, prima della crisi portata dai rincari dell’energia, sono state di tipo umanitario: un massiccio flusso di profughi ucraini è subito arrivato nel nostro Paese e, in particolar modo, in Romagna e a Rimini, territori in cui storicamente è presente una delle più grandi comunità ucraine a livello nazionale.

Rimini che, nonostante la crisi improvvisa, in quella fase ha risposto sostanzialmente bene all’emergenza umanitaria. Dopo 10 mesi, però, è necessario passare da una fase prettamente emergenziale dell’accoglienza a una più strutturata, ordinata, e non è scontato che questo avvenga in modo efficace. Molti ucraini, infatti, dopo mesi di permanenza in Italia hanno preferito tornare in patria, producendo una vera e propria “contro-migrazione” in uscita dal nostro Paese. È così anche a Rimini? Qual è la situazione attuale?

Profughi a Rimini, oggi

I dati nazionali più aggiornati, diffusi dall’Ansa, parlano di oltre 170mila cittadini ucraini presenti oggi in Italia perché in fuga dalla guerra. Si tratta, per la maggior parte, di donne e bambini (91mila e 49mila), poiché gli uomini adulti sono tenuti a rimanere in patria in caso di chiamata alle armi. Nel complesso, circa 160mila persone hanno ottenuto il permesso di soggiorno per protezione temporanea. Dal punto di vista territoriale, la nostra regione è quella in cui sono presenti (assieme alla Lombardia) i gruppi di profughi più numerosi (circa 19mila persone hanno presentato istanza di protezione internazionale in Emilia-Romagna). E a Rimini? “ Al momento a Rimini sono presenti circa 2.500 profughi provenienti dall’Ucraina. – spiega Marta Gladysheva, presidente di Doloni della Nazione, associazione con sede a Rimini nata dopo lo scoppio del conflitto, che si occupa di dare assistenza e consulenza ai profughi ucraini – Tanti, però, decidono di tornare in Ucraina e tanti sono già tornati. Attualmente seguiamo circa 700 persone, soprattutto donne e bambini, e si tratta di persone che sono accolte in modo molto eterogeneo, chi nei Cas e chi in alloggi di privati, molti non hanno una sistemazione fissa. La situazione, dunque, è in continua evoluzione”.

Cosa spinge molte persone a tornare in Ucraina? “ Difficoltà, dopo diversi mesi, a integrarsi in Italia, anche a causa dei complessi iter burocratici da seguire per giungere a un inserimento completo. E poi, sicuramente, iltema del lavoro: in estate molti hanno lavorato negli alberghi, ma con la fine della stagione turistica sono arrivate anche le difficoltà nel trovare un impiego. Così, c’è chi preferisce essere povero nella propria terra rispetto ad esserlo in Italia”.

Emergenza abitativa

Sul lungo periodo, dunque, qualcosa nell’accoglienza italiana ai profughi non sembra funzionare. Tra gli enti riminesi impegnati nell’accoglienza c’è la Caritas diocesana che, attraverso Luciano Marzi del Centro Servizi Immigrati, propone alcune riflessioni sul tema. “Gli ucraini hanno dimostrato e stanno dimostrando di essere una popolazione che ha un grande desiderio di integrarsi. Sono persone che non hanno perso tempo e si sono attivate fin da subito per lavorare e trovare nel lavoro la base del proprio percorso di autonomia e di inclusione. Stabilito questo, però, va detto che giunti ormai al decimo mese di conflitto, cominciamo ad assistere a criticità di diverso tipo, sintomi di una difficoltà del nostro Paese a passare, sul tema dell’accoglienza ai profughi, dalla fase emergenziale a quella strutturale”.

Ci spieghi.

“Le persone che provengono da zone dell’Ucraina oggi non interessate dal conflitto, e che hanno degli interessi e delle questioni rimaste in sospeso, hanno deciso di tornare in patria. Altre, invece, che non hanno questioni di cui occuparsi o che, drammaticamente, non hanno più una casa a cui tornare perché distrutta dalla guerra, si trovano a far fronte a una situazione di estrema indecisione, a un bivio complicatissimo: tornare in Ucraina o mettere le basi per cominciare una nuova vita in Italia? E così c’è anche chi, avendo trovato difficoltà con l’integrazione e non avendo più modo per tornare in Ucraina, torna ad affidarsi ai canali di accoglienza che il nostro Paese mette a disposizione. Canali che, però, continuano a essere gestiti in senso emergenziale (pensiamo ai Cas, i Centri di accoglienza straordinaria) e che, quindi, non rispondono a pieno alle esigenze di chi si trova in Italia ormai da quasi un anno”.

L’Italia (e di conseguenza il nostro territorio) non riesce più a rispondere in modo efficace?

“Credo si sia arrivati a una certa esautorazione dell’Italia sul tema. Dopo una prima fase dell’emergenza in cui molti profughi sono giunti nel nostro Paese, e nel territorio riminese, perché avevano già dei contatti personali in essere con italiani o con altri ucraini già presenti, ora chi fugge dal conflitto difficilmente sceglie l’Italia come destinazione. Guardando alla nostra esperienza come Caritas di Rimini, assistiamo a casi in cui nuclei familiari decidono di tornare in Ucraina e, però, il posto lasciato vuoto da loro non è ancora stato sostituito da nessuno. Addirittura ci è stato chiesto di rimettere unaparte dei posti previsti per i profughi ucraini a disposizione di migranti non ucraini, appartenenti agli altri flussi migratori che continuano a essere presenti in Italia e a Rimini. Flussi massicci: circa 95mila persone sono giunte in Italia quest’anno”.

Qual è la principale difficoltà che ci troviamo ad affrontare nel gestire un’accoglienza che non è più di tipo emergenziale?

“In questo senso, la criticità più grande è quella legata alla casa, alle difficoltà nei percorsi di autonomia abitativa. Assistiamo a una negazione dell’accesso al mercato dell’abitazione, che riguarda i cittadini stranieri in senso ampio e, in modo più critico, coloro che beneficiano nel nostro Paese di una forma di protezione internazionale. Se fino a qualche anno fa l’elemento cruciale nel percorso di inclusione era il lavoro, oggi il cuore del problema è diventato proprio l’assenza di percorsi positivi nel reperimento di un’abitazione. Una situazione, come detto, che colpisce soprattutto i rifugiati internazionali e che quindi interessa fortemente i profughi ucraini. Questo è proprio il cuore del problema, in questa fase: se ci fossero alternative concrete dal punto di vista abitativo, la maggior parte dei rifugiati uscirebbe dai centri di accoglienza, per loro natura impostati in ottica emergenziale”. Con tutti i benefici del caso nella prospettiva di una vera inclusione.