Home Attualita Tumore al seno, se il rischio è in famiglia: cosa fare?

Tumore al seno, se il rischio è in famiglia: cosa fare?

Farsi togliere e ricostruire entrambi i seni per ridurre al minimo il rischio di un tumore ereditario alla mammella. Suscitò molto scalpore, due anni fa, la scelta di una delle attrici più note del grande schermo, Angelina Jolie: una donna sana, ma nella quale è stata riscontrata una familiarità preoccupante (convalidata da test genetico) si sottopone ad un tipo di intervento che, così come l’asportazione delle ovaie, arriva ad incidere fortemente sulla femminilità della donna ed il suo equilibrio psico-fisico. In quell’occasione, anche i media e gli esperti italiani accendono quasi all’improvviso i riflettori sulla mastectomia profilattica (questo il nome dell’intervento). Si scopre che negli ospedali italiani, sull’onda dell’annuncio della Jolie, aumentano le richieste di test per la rilevazione del gene difettoso. Ci si interroga o meno sull’opportunità di questa operazione in donne giovani e sane. C’è chi guarda con favore alla chirurgia preventiva e chi grida “meno bisturi, più controlli”.
In realtà, in mezzo a due posizioni così contrastanti e dietro ad un intervento “drastico” come l’asportazione e ricostruzione di entrambe le mammelle, ci sono tante scelte. Non stiamo parlando genericamente di donne che rischiano un tumore al seno (una su 8 nel corso della vita stando alle statistiche, il 12%) bensì di un gruppo più ristretto di donne con un rischio molto più elevato, del 60-80%, e perdipiù associato al rischio di sviluppare anche un tumore alle ovaie (20-40%).

Come “misurare” il rischio ereditario-familiare? E come seguire e accompagnare la donna con un rischio elevato? Ne parliamo con l’oncologo Lorenzo Menghini, responsabile della Senologia dell’ospedale “Infermi”.
ha iniziato a seguire queste donne con un percorso mirato già prima che esplodesse il fenomeno Jolie”. La Regione Emilia-Romagna con una delibera del 2010 è stata la prima e unica in Italia a varare precise linee guida, da Piacenza a Rimini. E già dalla fine del 2011, in riferimento al rischio eredo-familiare per il carcinoma alla mammella, viene seguito in tutte le Aziende Usl emiliano-romagnole un percorso ad hoc.
Per prima cosa andiamo a verificare l’effettiva appartenenza della donna ad un profilo di rischio. Le prime segnalazioni possono arrivare dai medici di Medicina generale o dalle donne stesse o dagli oncologi nelle attività di screening. Il passo successivo è quello di inquadrare la paziente in uno dei tre profili previsti, a seconda della sua storia personale e familiare e di diversi fattori (presenza o meno in famiglia di casi di tumore a mammella, associazione di questo tumore al cancro alle ovaie, età in cui i carcinomi sono stati diagnosticati, ecc.)”.
Il cosiddetto Profilo 1 comprende donne con un rischio basso/normale, assimilabile alla popolazione generale. “In questo caso viene consigliato lo screening preventivo dai 45 ai 74 anni come avviene per il resto della popolazione femminile, con la differenza che l’Emilia Romagna è l’unica regione in Italia dove questo screening sia anticipato a 45 anni anziché a 50”. Il Profilo 2 vede il rischio aumentato di 2/4 volte: in tal caso si aggiunge una mammografia annuale dai 40 anni e biennale dai 50 ai 74 anni. Il Profilo 3 è invece quello in cui il rischio di sviluppare un cancro al seno o alle ovaie per motivi familiari e genetici è elevato. In quest’ultimo caso, però, la mutazione dei geni responsabili, BRCA1 e BRCA2, può esserci o meno. A questo punto, cosa accade?
Oltre ad accompagnare la donna con esami (gratuiti in tal caso) aggiuntivi e più ravvicinati nel tempo rispetto agli altri due profili, si effettua una prima consulenza genetica semplice nella quale la paziente viene valutata dall’oncologo della Senologia. Se si sospetta un profilo di rischio elevato, si consiglia una consulenza dal genetista che valuta se far fare il test sui geni BRCA1 e BRCA2”.
È a questo punto che si presenta il primo dilemma: meglio sottoporsi al test (un esame del sangue) e vivere sapendo di avere una probabilità ancora più alta di sviluppare un tumore o meglio non sapere altro, potendo comunque confidare su un percorso approfondito e serrato di screening? “Ci sono donne con familiarità che non vogliono fare il test – prosegue Menghini – ma quasi tutte le pazienti che seguiamo, se bene informate, decidono di farlo”.

Una buona informazione parte anche dalle statistiche. Tra tutti i tipi di tumori la familiarità incide nel 5-10% dei casi. Vale anche per il carcinoma alla mammella che in provincia di Rimini conta circa 400 diagnosi l’anno. “La fascia d’età più colpita è proprio quella non protetta dallo screening, tra i 30 e i 50 anni, ma da una generazione all’altra si riscontra un’insorgenza del cancro in età sempre più precoce (per esempio, nonna a 60 anni, mamma a 40 e figlia a 35)”. Ecco perché diventa importante seguire il percorso previsto per chi è a rischio ereditario. Senza dimenticare, poi, che a differenza del tumore alla mammella, per quello alle ovaie “lo screening preventivo è più difficile”.

Se per le donne che non hanno una familiarità per il tumore alla mammella o alle ovaie, il rischio di svilupparlo è del 12,5% (una donna su otto), per le donne con familiarità il rischio per il carcinoma alla mammella sale al 60-80% e per quello alle ovaie al 20-40%. Il rischio sale ancora per le pazienti in cui il test dia come risultato una mutazione dei geni BRCA1 e BRCA2: rispettivamente, 87% e 60%.
Oltre le statistiche ci sono altri elementi da considerare. “Tumori come quello alla mammella sono biologicamente molto aggressivi: si espandono molto velocemente e potrebbero dare metastasi (estendersi ad altre cellule e ad altri organi) prima della formazione del nodulo. Non è detto, infine, che ad un tumore piccolo corrisponda un’alta probabilità di guarigione, sebbene rispetto ad altri tumori quello alla mammella sia più sensibile alla chemioterapia”.

Arriviamo quindi al secondo grande dilemma: una volta accertato con il test genetico che la mia probabilità di avere un tumore alla mammella è molto alta, mi conviene veramente ricorrere all’asportazione preventiva del seno? Tenendo poi conto che in questi casi di eredità familiare e genetica il tumore al seno è strettamente associato a quello ovarico, dovrò anche farmi togliere le ovaie?
A questo punto una risposta scientifica non c’è. “A tutt’oggi – afferma Menghini – non possiamo dire quale sia il metodo migliore per una donna giovane con mutazione genetica: se l’asportazione o la sorveglianza continua. Qui entra in gioco il vissuto storico della donna, la sua sensibilità. Stiamo parlando di un intervento che può incidere fortemente sulla sua femminilità e sfera personale. La soluzione migliore è che la donna sia informata sotto tutti gli aspetti: sarà solo lei, dopo aver avuto anche un opportuno colloquio psicologico, a decidere la cosa più giusta da fare per se stessa”.
Il resto sono statistiche, come quella che vede il rischio di sviluppare un tumore alla mammella ridursi al 5% con la mastectomia profilattica. Ma non annullarsi, “perché rimangono il capezzolo e una parte di tessuto intorno ad esso”. Un’alternativa, accanto alla diagnosi continua, potrebbe arrivare dalla chemioterapia a scopo preventivo, “ma ancora non convalidata scientificamente”. Un auspicio va all’ingegneria molecolare: “Ci piacerebbe che fosse già in grado di ‘riparare’ il danno genetico – conclude Menghini – ma ad oggi è ancora un sogno”.

Alessandra Leardini