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Tre Papi a scuola di economia

Papa Francesco e Stefano Zamagni

Intervista. Il professor Stefano Zamagni compie 80 anni. È presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Racconta vizi e virtù dei riminesi

Professor Zamagni, con quale animo si prepara a spegnere le 80 candeline ?

“Con l’animo di chi è grato per la vita che ha vissuto fino ad ora e con l’animo di chi sa che ha ancora qualche tempo per completare l’opera intrapresa”.

Stefano Zamagni è un turbo.

Economista di fama internazionale, fra i principali divulgatori dell’economia civile, è presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e alterna con uguale impegno, da instancabile globetrotter, con perenne borsa in pelle a mano, simposi accademici ad incontri parrocchiali negli angoli più sperduti del Paese. In pensione da dieci anni, continua ad insegnare a titolo gratuito a centinaia di studenti in tre corsi dell’università di Bologna. Fra i suoi numerosi incarichi è stato anche presidente dell’Agenzia per il Terzo Settore e della facoltà di Economia dell’università di Bologna. Ha firmato 34 libri sul pensiero economico, ha collaborato ad un’altra quarantina di volumi e pubblicato centinaia di saggi scientifici.

Sposato con l’amatissima Vera Negri, anche lei economista, hanno avuto due figlie e quattro nipoti, dai 23 ai 16 anni, tutti impegnati negli scout.

A chi si sente maggiormente riconoscente per le scelte della sua vita e come le è nata la vocazione all’insegnamento?

“Dei numerosi nomi che mi vengono in mente, a due in particolare mi sento estremamente grato, allo storico della Romagna, il professor Romolo Comandini e a don Oreste Benzi. Comandini è stato mio professore in prima media. Un personaggio straordinario da tutti i punti di vista. Fu lui a farmi scoprire l’importanza e la ricchezza dell’insegnamento. Il secondo incontro per me importante è stato con don Oreste Benzi, un uomo di profonda cultura. Fu lui a mettermi in mano a 14 anni i libri di Maritain, Mounier e di diversi filosofi del Novecento europeo”.

All’epoca don Benzi era assistente della Gioventù Italiana di Azione Cattolica di Rimini… “Mi chiese di aiutarlo per dar vita al movimento dei pre-ju (fascia fra i 13-15 anni), un periodo importante in cui si formano i valori di vita. E fu una battaglia memorabile perché in Azione Cattolica a Roma non volevano. C’erano già gli Aspiranti Minori, Maggiori e Juniores. Ma don Oreste, da bravo psicologo e pedagogista, aveva capito che c’è un’età di mezzo che merita una particolare attenzione. Alla fine vinse don Oreste ed io diventai Delegato diocesano e presidente della Giac, Gioventù Italiana di Azione Cattolica. Dopo la maturità fu lui a dirmi: ‘non andare all’università a Bologna, perché lì troveresti tutti i tuoi amici riminesi e con loro faresti comunella’. Devi invece fare un’autentica esperienza universitaria: vai a Milano’. E così feci il concorso per entrare in Cattolica e fu una boccata d’ossigeno”.

Lei è nato a Rimini il 4 gennaio del 1943, ma dal 1979 insegna ed abita a Bologna. Si sente più riminese o bolognese?

“Mi sento più riminese e non ne faccio mistero con nessuno”.

E perché?

“Perché i riminesi hanno una marcia in più, con la particolarità che a volte si dimenticano di innestarla e questo determina le note inadeguatezze. Ma quando la innestano sono capaci di fare miracoli”.

Cosa differenzia maggiormente i bolognesi dai riminesi?

“Dal punto di vista storico sono simili. Entrambi facevano parte dello Stato Pontificio e non hanno avuto né granduchi, né principi. I riminesi hanno tuttavia sviluppato quel pizzico di sana anarchia che ha loro consentito di arrangiarsi meglio nei momenti di difficoltà”.

Bologna e Rimini condividono l’università. Cosa manca ai riminesi ?

“Quando arrivai in cattedra a Bologna, provenendo dall’università di Parma, il direttore del Dipartimento mi mandò a dirigere la Scuola di Studi Turistici della facoltà di Economia e Commercio dell’università di Bologna con sede a Rimini. Da quell’esperienza è nata l’università di Rimini. Poi errori sono stati fatti da entrambe le parti. Bologna ha continuato a mandare a Rimini docenti che non riuscivano a sistemarsi in Riviera da un punto di vista accademico, i riminesi – a parte Luciano Chicchi – non hanno mai compreso l’importanza strategica di avere un’università. La stessa Fondazione, che è nata per sostenerla, è stata guidata per anni da persone che non avevano alcun rapporto con l’università”.

Lei è noto come presidente della Pontifica Accademia delle Scienze Sociali. Quello con la Santa Sede è tuttavia un rapporto di vecchia data che l’ha portata a conoscere ben tre papi… “È un rapporto che risale agli inizi del 1990 quando Giovanni Paolo II mi chiese di organizzargli un incontro con i dodici più importanti economisti mondiali. All’epoca non sapevo che il Papa stava pensando di pubblicare l’enciclica Centesimus Annus. E quando gli chiesi se dovevano essere tutti economisti cattolici, lui mi rispose ‘non necessariamente, purché siano bravi’. Nel 1991 divenni anche Consultore del Pontificio Consiglio Justitia et Pax’”.

E con Benedetto XVI come è andata ?

“Con Benedetto XVI il rapporto è stato molto stretto. Ero l’unico laico in un gruppo di lavoro di dieci persone, fra vescovi e cardinali.

Alcune parti dell’enciclica Caritas in Veritate le ho scritte io. Il Papa poteva buttarle, ma le ha fatte sue.

Ci fu anche un bel confronto sul titolo. C’era chi proponeva “Veritas in Caritate”, ma io proposi Caritas in Veritate. Me lo aveva insegnato don Oreste Benzi: se c’è una caratteristica del cristianesimo è nell’affermazione del primato del Bene perché la ricerca della Verità non è una nostra esclusiva, ma è comune a tutte le fedi. Il papa si ritirò a Castel Gandolfo per una settimana, poi decise per la mia proposta”.

Poi è arrivato papa Francesco…

“Papa Francesco è una persona spassosissima. Una delle prime cose che mi disse è ‘ Io ho la precedenza su tutti gli altri’. Nel 2013 mi ha nominato membro ordinario della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, di cui sono presidente dal marzo del 2019. Non pochi dei documenti elaborati dal Papa sono frutto dell’interazione fra la Pontificia Accademia e i suoi scritti. Pensiamo all’esortazione apostolica Evangelii Gaudium fino agli interventi più recenti sulla guerra in Ucraina”.

Sulla guerra in Ucraina lei è stato anche fra gli ideatori di un appello per la pace firmato da intellettuali di diversa formazione… “Un documento che il Papa ha apprezzato e che continuo a sperare che possa diventare la base per un possibile negoziato. Purtroppo da parte degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e men che meno da parte della Cina manca il semaforo verde per consentire al Papa di organizzare il negoziato in Vaticano perché è l’unico territorio indipendente da tutti e al di sopra delle parti”.

Torniamo a Lei. Continua ad avere una vita ricca di impegni e di soddisfazioni. Ma c’è qualcosa che le manca ed alla quale tiene molto?

“Direi di no, perché quello che sono riuscito a realizzare supera di gran lunga quelle che erano le mie aspettative. Provengo da una famiglia molto umile, povera e quando ci siamo sposati non avevamo un soldo. Ma ho sempre fatto quello che più mi piaceva: insegnare nel senso dell’educare. Ed ho ottenuto i risultati che desideravo sia sul fronte scientifico che didattico. E soprattutto ho una splendida famiglia. Coi tempi che corrono, questa la considero una grazia del Signore”.

Giorgio Tonelli