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Tradizione ammantata di modernità

Al centro il mezzosoprano Ekaterina Semenchuk (Amneris) - Ph Fabrizio Sansoni

In scena al Teatro dell’Opera di Roma Aida, nuovo allestimento di David Livermore con la direzione di Michele Mariotti e un cast stellare 

ROMA, 3 febbraio 2023 – Uno spettacolo d’impostazione sostanzialmente tradizionale con applicata una verniciatura di modernità, che proviene dai più aggiornati ausili tecnologici. A firmare il nuovo allestimento dell’Aida in scena in questi giorni al Teatro dell’Opera di Roma è David Livermore, autore persino delle coreografie, insieme ai suoi abituali collaboratori: lo studio milanese Giò Forma per le scene, D-Work per le elaborazioni video e Gianluca Falaschi per i sontuosi costumi art déco.

Il tenore Gregory Kunde (Radames) – Ph Fabrizio Sansoni

Fonte d’ispirazione dello spettacolo il film muto Cabiria, realizzato da Giovanni Pastrone, pioniere fra i cineasti d’inizio novecento. Al centro una scena spoglia (che ha il vantaggio di lasciare gli interpreti più concentrati sulle difficoltà del canto) dove troneggia un enorme parallelepipedo in ledwall, sul quale si susseguono ininterrotte proiezioni: di volta in volta evocano una guerra che si combatte in lontananza o la battaglia interiore che arrovella il cuore dei protagonisti. L’intenzione sarebbe quella di sottrarsi al kolossal e sfrondare tutta la retorica figurativa che – dal 1871, anno della première al Cairo – si è sedimentata su quest’opera: obiettivo certo legittimo, ma che, tranne nel finale ricondotto a una sorta di wagneriana trasfigurazione, non approda a risultati evidenti. Né appare una trovata troppo brillante affrontare all’insegna del politically correct il “problema” della pelle scura di Aida e Amonasro, risolto salomonicamente da Livermore coprendo il volto anche di tutti gli altri interpreti con vari strati di colori, in grado d’integrarsi con quelli delle loro vesti.

L’Orchestra del Teatro dell’Opera, guidata da Michele Mariotti, attuale direttore musicale, è stata il duttile strumento di una lettura che privilegiava l’aspetto intimistico della vicenda. La sua è una bacchetta attenta ai dettagli (mirabile il rilievo dato al racconto del Messaggero) e che sa curare la dinamica orchestrale in modo minuzioso: davvero bellissimi gli interventi delle trombe, non solo perfettamente intonate, ma lontane da ogni reboante magniloquenza e capaci di graduare le più piccole sfumature sonore. La stessa cosa vale per i cantanti, che Mariotti ha spinto a una bella dialettica di mezzevoci e a una dizione sempre ben intellegibile. Certo il direttore ha avuto buon gioco, perché poteva contare su un quartetto protagonistico davvero notevole.

A cominciare dalla protagonista Krassimira Stoyanova: la voce del soprano bulgaro ha forse perso un po’ dell’omogeneità di un tempo, ma la varietà degli accenti, la lunghezza dei fiati e la capacità della voce di galleggiare – anche nei pianissimi – con sorprendente naturalezza sull’orchestra restano ancora stupefacenti. Nei panni di Radames, una vecchia gloria: dopo una lunga carriera dedicata ai ruoli monstre tenorili rossiniani, Gregory Kunde ha cambiato radicalmente repertorio e adesso, quasi settantenne, spazia con disinvoltura tra i più impegnativi personaggi romantici e veristi. La voce presenta talvolta zone vuote, ma la capacità di smorzare i suoni ed effettuare certe finezze è degna del fuoriclasse che è sempre stato.

In splendida forma Ekaterina Semenchuk, emissione compatta e potentissima. L’Amneris del mezzosoprano bielorusso, nell’ultimo atto, diventa una donna furiosa divorata da un’atroce gelosia, ora insinuante, ora altera, ora disperata: capace insomma di mostrare che il suo personaggio è quello cesellato da Verdi con maggiore efficacia. Nei panni di Amonasro il baritono di lungo corso Vladimir Stoyanov, anche lui bulgaro, ma da tempo adottato nel nostro paese. Lascia ammirati il dosaggio delle sfumature – il passaggio dal ‘mezzoforte’ al ‘piano’ – quando esordisce con uno splendido «suo padre». Più sfocata, purtroppo, la prova dell’unico italiano fra gli interpreti principali: Riccardo Zanellato è un Ramfis troppo fievole. Assai più sonoro e timbrato l’altro basso, Giorgi Manoshvili, nelle vesti del Faraone.

Da non dimenticare il contributo del coro, preparato da Ciro Visco. Al termine di un’esecuzione così appagante, si potrebbe forse obiettare che nessuno dei quattro protagonisti ha una voce davvero fresca. Ma non è un problema per i personaggi dell’Aida, dove la verosimiglianza fisica (e, dunque, anche timbrica) non è poi così determinante. Ascoltare invece interpreti di un tale calibro è ancora un grande piacere.

Giulia Vannoni