Per la stagione della Fenice Der Protagonist, opera giovanile di Kurt Weill su libretto di Georg Kaiser
VENEZIA, 10 maggio 2025 – La multiforme produzione musicale di Kurt Weill testimonia una sbalorditiva versatilità: forse neppure per scelta, ma più spesso indotta dalle contingenze storiche. Nell’arco della sua breve vita – morì a cinquant’anni a New York, quando ormai componeva solo per Broadway e Hollywood – c’è infatti una prima fase ascrivibile all’espressionismo tedesco, poco conosciuta in Italia, dove il suo talento è associato soprattutto alle collaborazioni con Brecht.

In questi giorni al Teatro Malibran – per il cartellone della Fenice – è in scena Der Protagonist, che debuttò a Dresda nel 1926. Si tratta di un lavoro composto, senza apportare modifiche, sull’omonimo testo teatrale scritto in precedenza (1920) da Georg Kaiser: letterato che all’epoca godeva di grande notorietà e drammaturgo tra i più rappresentativi della Repubblica di Weimar. Non saranno solo le collaborazioni professionali ad accomunarli, ma anche il destino: inseriti nell’elenco degli “artisti degenerati” dovettero abbandonare entrambi la Germania.
Il protagonista in questione è un attore elisabettiano, che sta facendo le prove per allestire, di fronte a un Duca che però non comparirà mai in scena, una pantomima erotica incentrata sulla gelosia e che coinvolge due coppie: il primo tentativo gli appare, però, troppo scollacciato, per cui concepirà una seconda versione, più castigata, in modo da non disgustare il Duca e i suoi ospiti. Al termine della prova, tuttavia, il protagonista – ormai incapace di distinguere la realtà dalla finzione – uccide, accoltellandola, la propria sorella, cui è legato da un morboso affetto. Ma, nonostante l’omicidio, vuole comunque andare in scena lo stesso perché convinto di aver raggiunto l’apice artistico: quello di essersi immedesimato totalmente nel ruolo. Impossibile non pensare ai risvolti pirandelliani della situazione, tanto più che il commediografo italiano, negli stessi anni, affrontava temi non troppo diversi.
Lo spettacolo del Malibran porta la firma – regia, scene, costumi e luci – di un profondo conoscitore della cultura tedesca, Ezio Toffolutti, che ha lavorato per molti anni in Germania, dove è stato collaboratore di Benno Besson. Anziché rifarsi al periodo elisabettiano, e nonostante sul sipario troneggi un’immagine di Shakespeare, quest’allestimento è ambientato negli anni venti. La scena, semplice e funzionale, è occupata al centro da un ottetto di fiati (l’orchestra messa a disposizione dal Duca), mentre sui lati ci sono due teatrini, dove le due coppie di attori ingaggiano le loro schermaglie. Toffolutti, inoltre, si preoccupa molto della recitazione degli interpreti, in modo da rendere davvero accurata la comprensione del testo tedesco, al punto da non sentire quasi il bisogno dei sopratitoli.
Il vero demiurgo dell’operazione è stato comunque Markus Stenz che, alla guida degli strumentisti della Fenice, ha saputo valorizzare la forte componente narrativa della musica di Weill: dall’ouverture iniziale alle due pantomime, quando gli attori si limitano alla sola gestualità e l’andamento drammatico è affidato esclusivamente al commento strumentale. In una lettura carica di tensione, il direttore tedesco ha evidenziato gli echi del passato presenti nella musica e, ancor più, quelli contemporanei a Weill: dal jazz a certi echi stravinskiani, leggibili soprattutto nella componente ritmica, ben valorizzata dall’ottetto di fiati in palcoscenico.
Anche il cast ha contribuito al buon esito. Per il ruolo del Protagonist (nomen omen) ci vorrebbe un gigante. Il tenore Matthias Koziorowki, sulla scena, è stato un autentico mattatore, capace di gestire una voce poco sonora nella zona centrale e più convincente in quella acuta, grazie a un efficace uso del falsetto. Intensa ed espressiva, il soprano Martina Welschenbach ha interpretato l’accorata sorella. Apprezzabile per scioltezza vocale il baritono Dean Murphy, nei panni del suo amante, mentre il tenore Alexander Geller ha delineato l’austero maggiordomo con emissione impeccabile e buona timbratura. I tre guitti erano il basso Szymon Chojnacki, il basso-baritono Matteo Ferrara e il controtenore Franko Klisović, spiritosissimi anche en travesti; meno a fuoco invece l’oste del baritono Zachary Altman.
Unico rammarico: l’opera dura appena un’ora. Non si capisce perché non abbinarla a un altro breve lavoro, ad esempio Lo zar si fa fotografare: divertente commedia musicale realizzata due anni dopo sempre dalla coppia Weill e Kaiser.
Giulia Vannoni