Home Osservatorio Musicale Tra cinema e psicanalisi

Tra cinema e psicanalisi

ELEKTRA, il soprano Susan Bullock (Clitennestra) e il soprano Aile Asszonyi (Elettra) - PH Monika Rittershaus

All’Opera di Francoforte un nuovo allestimento di Elektra firmato dal regista Claus Guth con un eccellente cast femminile 

FRANCOFORTE, 5 maggio 2023 – Quando Elektra di Richard Strauss andò in scena per la prima volta, a Dresda nel 1909, erano anni di profondi mutamenti, storici e culturali. Ben consapevole di come Hugo von Hofmannsthal, nel suo testo tratto da Sofocle, fosse riuscito a rileggere il mito calandolo nel presente, il regista Claus Guth si è concentrato in primo luogo sui riferimenti alla neonata psicanalisi, tenendo però lo sguardo rivolto anche ad altre grandi novità di quegli anni, soprattutto al cinema.

ELEKTRA, una scena dello spettacolo – PH Monika Rittershaus

Nella nuova produzione, che firma per l’Opera di Francoforte, non c’è traccia pertanto del palazzo degli Atridi, ma la scena fissa di Katrin Lea Tag configura una sala che potrebbe essere teatrale o, meglio ancora, quella di un cinematografo: tappezzata con un colore violaceo, un po’ triste e raggelante, dove le porte sono sormontate dall’indicazione “uscita di sicurezza”.
In questo spazio mentale la protagonista si abbandona alle proprie farneticazioni, incapace di distinguere i fantasmi che si moltiplicano sulla scena: un delirio allucinatorio dove la realtà si confonde con l’immaginazione. È qui che Clitennestra viene omaggiata dalla corte come una diva del muto, ma potrebbe essere anche una suggestione onirica della protagonista, indotta dalla gelosia nei confronti dell’odiata madre. E ancora qui avviene lo scontro con la sorella Crisotemide, quando la Elettra – dopo aver cercato di risvegliarne i sensi per farla sua complice nei propositi di vendetta – non riesce a convincerla a uccidere insieme la loro genitrice.

Certo non sarebbe stato possibile dare forma a questo groviglio di sentimenti senza poter contare su splendide interpreti, a cominciare da Aile Asszonyi, soprano estone dotata di grande carisma scenico e notevolissimi mezzi vocali (non a caso è oggi l’Elettra più acclamata sui palcoscenici internazionali). Passando attraverso un caleidoscopio di emozioni, il suo personaggio trascolora dalle sonorità barbariche e arcaiche della lacerante invocazione iniziale – quell’«Agamemnon» capace quasi d’incutere terrore – sino al parossismo orgiastico della danza finale con cui si accascia definitivamente al suolo. Ed è grazie a una voce che galleggia con facilità sulla densa orchestrazione straussiana che la cantante alterna il furore isterico alla tenerezza con cui evoca il fratello Oreste.
Se possibile ancor più magnetica – nonostante l’abito dimesso disegnato per lei dalla costumista Theresa Wilson – è Jennifer Holloway, uno di quei rarissimi soprani lirici in grado di tener testa con la massima facilità e un’incontaminata lucentezza timbrica ai più fitti addensamenti sonori dell’orchestra. La sua Crisotemide, finalmente non fagocitata dalla sorella ma in grado di sostenere con lei un dialogo alla pari, è un personaggio capace d’intensi accenti espressivi: risoluta nell’affermare le sue aspirazioni a un futuro di normalità familiare, teneramente malinconica quando ripiega la sciarpa per sagomare quel bambino che s’immagina di poter nutrire in futuro.
Perfetta in scena nella sua fredda eleganza (i colori dell’abito richiamano la tappezzeria) la terza protagonista femminile, Susan Bullock: soprano drammatico di lungo corso, un tempo interprete di Elettra e – come è successo ad altre cantanti – passata ora al ruolo di Clitemnestra, pur con il rischio di suoni un po’ vuoti che talvolta ne limitano la resa vocale, mai però la classe interpretativa.
Disegnati comunque con grande accuratezza sul piano musicale anche tutti gli altri personaggi: ciascuno aveva un adeguato primo piano, sia per merito della bravura dei singoli sia grazie al sostegno orchestrale. Sul versante maschile s’imponeva l’Egisto di Peter Marsh, che possiede l’arte di un canto espressionistico senza nulla perdere in autentica tenorilità. Meno adatto invece a un ruolo sostanzialmente baritonale, come quello di Oreste, il basso Kihwan Sim. Da ricordare poi il mentore di Oreste, interpretato da Franz Mayer, che dà avvio a una sorta di parata da operetta: richiamo a un altro muro maestro della cultura di quegli anni.

Bacchetta di notevole plasticità, Sebastian Weigle – assecondato alla perfezione dalla Frankfurter Opern Orchester – esalta la straordinaria ricchezza timbrica della musica di Strauss, stagliandone nitidamente i temi fino a estenuarli o spingerli al parossismo, senza che mai si sfilaccino, e creando anzi delle suggestive dissolvenze. Un tessuto sonoro che giustifica pienamente le allusioni cinematografiche della regia.   

Giulia Vannoni