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SAGRA IN DIRITTURA DI ARRIVO

La Youth Orchestra of Bahia con al centro Raysson Lima

Settantreesima edizione della Sagra Musicale Malatestiana: un bilancio dei concerti sinfonici e cameristici, in attesa del finale  

RIMINI – Lasciata alle spalle la parte più consistente della programmazione, la Sagra Malatestiana si avvia verso l’appuntamento conclusivo. Il cartellone 2022 è stato però generoso di proposte, alcune di buona qualità. Il concerto della Rundfunk Sinfonieorchester Berlin diretto da Vladimir Jurowsky, ad esempio, sarà da ricordare per un Wagner assolutamente idiomatico, come in Italia accade di rado, mentre la performance della bravissima Vilde Frang è servita soprattutto a mostrare di quali prodigi sia capace la violinista norvegese, senza che le difficoltà tecniche vadano a discapito dell’espressività. La Quinta di Mahler, nella seconda parte di un concerto generosamente impaginato, è stata poi l’occasione per uno sfoggio di bravura degli strumentisti tedeschi, anche se la magnifica esecuzione dell’Adagetto (con l’inevitabile rimando a Morte a Venezia di Visconti) da sola valeva l’intera sinfonia: un prezioso valore aggiunto per Rimini, città cinefila, nonostante tutto.

La Youth Orchestra of Bahia con al centro Raysson Lima

Le capigliature dei componenti l’Orchestra Giovanile di Bahia – multirazziale – sono piuttosto originali, i colori degli strumentisti hanno numerosissime sfumature, l’energia che promanano è straordinaria. Suonano con passione e ben affiatati, si tratti di Beethoven, di musica d’ispirazione etnica o di Villa Lobos. Se proprio si vuole trovare un difetto è nella dinamica non sempre ben articolata: un neo imputabile, forse più che al direttore Ricardo Castro, alla qualità di strumenti non di grande pregio, soprattutto quelli ad arco. Lascia invece perplessi – ma non dipende certo dai giovani orchestrali – l’uso massiccio e invasivo dell’amplificazione nel Teatro Galli, che ha sconvolto gli equilibri sonori nel Terzo concerto di Beethoven (soprattutto nel ‘largo’) e ha mortificato il fraseggio della bravissima Maria JoãoPires. A cosa serve chiamare una grande pianista se poi le sorti della serata dipendono da come sono regolati artificialmente i livelli sonori?

L’appuntamento con la musica antica, che ha avuto per protagonista l’Ensemble dell’Orchestra Barocca Italiana (il contralto Antonia Salzano, la violinista Valentina Nicolai, Andrea Damiani tiorba, Maria Elena Ceccarelli clavicembalo, Riccardo Martinini violoncello e concertazione), ha fornito l’occasione per conoscere compositori di area emiliano-romagnola: oltre a Francesco Gasparini, il cesenate Pier Francesco Tosi, il riminese Carlo Tessarini, Arcangelo Corelli (di Fusignano) e il bolognese Floriano Arresti. Tutti transitati attraverso l’Accademia Filarmonica di Bologna per il loro percorso formativo e poi spostatisi alla volta di Roma, polo culturale di riferimento tra sei e settecento, dove questi musicisti poterono giovarsi del mecenatismo dei Borghese, in particolar modo di Scipione.

Anche se si chiama Forma sonata è una performance multimediale di Daniele Spanò, con le elaborazioni elettroniche musicali di Angelo Elle (si tratta di una collaborazione tra Sagra Malatestiana ed Emilia-Romagna Teatro). Sulle parole di Ottavio Rinuccini intonate da Sigismondo D’India, Piangono al pianger mio, e sul testo anonimo Mille regretz musicato da Josquin Desprez, la voce di Arianna Lanci crea un efficace contrappunto alla parte visuale. A rappresentarla è un suggestivo polittico su cui si materializzano dense nuvole destinate ad abbattersi sulla laguna veneta: insieme ad alcune registrazioni audio-video effettuate a Venezia durante l’alluvione del 2019 si trasformeranno in riflessioni sul cambiamento climatico, nonché sulle responsabilità dell’uomo.

Particolarmente ricco e di qualità il segmento cameristico, a cominciare dall’appuntamento iniziale. Piacevolissimo il concerto di Danusha Waskiewicz, magnifica prima viola dell’Orchestra Mozart negli anni di Abbado e con una lunga militanza fra i Berliner e i Luzerner, oggi però dedita all’attività solistica – suona nel Quartetto Prometeo – con la possibilità di escursioni anche divertenti e leggere. Si è presentata insieme alla violoncellista irlandese Naomi Berrill per proporre autori di epoca barocca – Bach in primis – e moderni. Sorpresa: le due ragazze si sono rivelate anche efficaci cantanti. Insieme hanno scandito le musiche con un piacevole accompagnamento vocale, dimostrando che si può essere bravissime tecnicamente e, al contempo, leggere come libellule. Proprio come il titolo della serata, DragonFly.

Oggi ci sono tanti ottimi pianisti, impeccabili sul piano tecnico, ma il cui unico scopo appare una sfida con i propri limiti, solo per sfoggiare cosa si può ottenere in termini di velocità e funambolici virtuosismi. Mariangela Vaccatello non rientra in questa categoria: pur in possesso di un’assoluta padronanza tecnica della tastiera, le sta a cuore far emergere la sua visione musicale e trasmetterla a chi ascolta. Il suo recital, che si è aperto con l’Appasionata di Beethoven e si è concluso con la Terza sonata in si bemolle maggiore di Chopin, ha trovato in Skrjabin l’interlocuzione più interessante. A cominciare dal bellissimo poema Vers la flamme: in perfetto equilibrio tra echi del passato, di cui è imbevuto il compositore russo, e una personalissima apertura a riverberi contemporanei. L’interpretazione della Vaccatello possiede una straordinaria comunicativa, oggi davvero rara, ed è capace di prendere il pubblico per mano: in certi momenti si aveva proprio la sensazione che il respiro degli ascoltatori pulsasse in sincrono con quella musica. E quando succede sono davvero momenti magici.

Nato nel 1998, il Doric String Quartet ha subito raggiunto una serie di prestigiosi traguardi internazionali, divenendo uno degli insiemi cameristici più affermati grazie a una personale e modernissima cifra interpretativa. La serata si è aperta con Beethoven, quello del Quartetto in fa minore  n.11 op.95 (il cosiddetto “Serioso”), in cui ogni frase veniva scandagliata con la massima accuratezza, forse al prezzo di una certa disarticolazione esecutiva e a svantaggio della cantabilità. A seguire, Haydn con il Quartetto in mi bemolle maggiore n. 5 op. 50. Dovendo misurarsi con il minor grado di libertà concesso da questo brano, i giovani strumentisti hanno toccato il vertice esecutivo della serata, soprattutto nell’incantevole secondo movimento (‘poco adagio’). Infine, sono riusciti a svelare un fuoco insospettabile nel Quartetto in mi minore op.83 di un autore solitamente poco appassionante come Elgar. Peccato solo per il poco pubblico presente, anche se ha avuto il privilegio di assistere a un’esecuzione davvero unica.

Oggi, in tempi di guerra, non è facile parlare di Europa, ma al di là delle tensioni internazionali esiste una storia musicale comune, in cui affondano radici culturali che gli egoismi economici e politici non riescono più a cogliere. Ne ha parlato prima del concerto Paolo Marzocchi e, soprattutto, è stata poi la WunderKammer Orchestra guidata da Carlo Tenan a far ascoltare le parentele che collegano tra loro territori anche lontani: una bella serata, dove il Beethoven meno noto delle Dodici Contraddanze WoO14 (musica popolare, in sostanza) era accostato a uno Schubert – quello delle Deutsche Tänze op.33 – riadattato all’organico della WunderKammer, passando attraverso brani d’ispirazione etnomusicologia di Bartók e dello stesso Marzocchi. Di nuovo nel segno di Beethoven la conclusione, con gli Europäische Volkslieder affidati a un’interprete vocale intensa e consapevole come Hélène Walter. Tutti brani accomunati da grandi difficoltà ritmiche – spesso vere e proprie poliritmie – che l’orchestra, integrata per l’occasione da un quartetto d’archi viennese esclusivamente femminile, è stata in grado di affrontare con disinvoltura e scioltezza.

Ben impaginato anche il concerto di Antonio Pappano, direttore dal formidabile istinto musicale, che ha accostato Beethoven a Schumann per sottolineare una contiguità romantica forse più astratta che reale. Insieme all’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia (quella in corso è la sua ultima stagione come direttore principale) ha proposto il Concerto in re maggiore per violino e orchestra op.61, scritto da Beethoven nel 1806: unica pagina dedicata a questo organico dal compositore e, inevitabilmente, amatissima dai violinisti per le innumerevoli possibilità che offre. Solista la splendida Lisa Batiashvili – intonazione perfetta e impareggiabile tecnica esecutiva – che con il suo magnifico Guarneri del Gesù ha saputo mantenere una ininterrotta tensione durante l’anomala lunghezza del primo movimento e valorizzare la straordinaria cantabilità del brano. Da parte sua, Pappano ha reso l’orchestra complice della violinista, instaurando una simbiosi strettissima, ribadita anche nel bis, dove – una volta tanto insieme, senza lasciare campo libero al solista – hanno proposto una trascrizione di Bach. Nella Seconda sinfonia in do maggiore, composta da Schumann nel 1846, era possibile rintracciare in filigrana il debito dell’autore nei confronti di Beethoven. Frutto di grandi rovelli interiori e dalla gestazione tormentata (Schumann vi rimise mano anche dopo la prima esecuzione pubblica), in realtà questa pagina è proiettata decisamente verso una modernità in cui vengono infranti, e addirittura sovvertiti, schemi consolidati: anche se nella sua lettura, dove brillava soprattutto il bellissimo ‘adagio’, Pappano è sembrato ricondurla a una più rassicurante medietas. Artista generoso, non si è risparmiato e, anzi, ha ringraziato più volte il pubblico riminese per la cordialità dell’accoglienza continuando con i bis, tra cui l’ouverture delle Nozze di Figaro, in un’esecuzione pulsante di vita proprio come è richiesto dalla Folle journée mozartiana.

Giulia Vannoni