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Storia di una lapide federiciana

Piccola, rovinata, incavata. Quell’Epigrafe che segnala il passaggio di Federico II da Rimini, ha una storia molto antica; ma anche un passato travagliato, fatto di viaggi, guerre, ritrovamenti, rimpieghi e poi finalmente il riconoscimento della sua importanza e del suo valore di testo insostituibile allo studio, per comprendere sia la civiltà antica sia quella medioevale.
Il ritrovamento di questa piccola lapide incisa, risale al 1973-1974, in quel periodo si lavorava all’abbattimento di un circolo ACLI che nel dopoguerra era stato costruito con le macerie lasciate sul campo dai tanti bombardamenti. L’allora parroco di San Martino In XX, don Lazzaro Raschi, la vide e la conservò. In seguito si seppe che la stessa pietra nel periodo antecedente agli anni ’40 era posta, e ammirata dai fedeli, sotto l’altare maggiore della stessa Chiesa poiché ritenuta una pietra sacra.

L’epigrafe
Al momento del ritrovamento del frammento, l’iscrizione è costituita da marmo liscio, ma non levigato, è priva quasi completamente della prima metà di sinistra e di parte del lato inferiore, con la perdita di quasi 3/4 del testo. Nell’osservarlo si è ipotizzato che potesse essere di forma quadrata o rettangolare e che sia stato utilizzato in epoca romana come materiale da costruzione, tanto da provocarne il danneggiamento (le misure attuali della lapide sono di: 22 cm di altezza, 12 di lunghezza e 5.5 cm di larghezza).

La consacrazione letteraria
Dopo il ritorvamento e un fortunato quanto accidentale incontro tra Don Lazzaro e lo storico ed editore Bruno Ghigi, si è voluto ricostruire e presentare al grande pubblico la storia della lapide federiciana, attraverso un breve quanto piacevole testo “Federico II di Svevia e l’Epigrafe di San Martino in XX di Rimini”, curato dall’epigrafista e attualmente docente di Storia Medioevale presso l’Università di Urbino, Anna Falcioni; ed edito, appunto da Bruno Ghigi. Nel testo si ralizza una preziosa ricostruzione del percorso interpretativo che vari studiosi dell’arte realizzarono per cercare di spiegare che cosa dicesse quell’enigmatica tavoletta, nonché una dettagliata ricostruzione dei fatti storici che legarono il grande Imperatore all’Italia e alla Romagna. Quale messaggio ci ha lasciato Federico II, passandoda qui, più e più volte e considerando questa terra roccaforte del progetto di restaurazione imperiale da attuare in terra italiaca?

L’interpretazione del testo
Il primo ad addentrarsi nell’interpretazione fu Augusto Campana, poi arrivarono diverse citazioni. Ma la prima volta in cu si parlò del reperto nell’ambito degli studi federiciani fu il 1978 e a farlo fu Gina Fasoli. Poi nel 1982 Aurelio Roncaglia, basandosi sugli studi e le interpretazioni precedenti realizzò una traduzione del testo: “Nell’anno del Signore 1231, sotto il papato di Gregorio e l’impero di Federico, nella quarta edizione, al tempo in cui l’imperatore Federico venne a Rimini e condusse con sé elefanti, cammelli e altri mirabili animali, quest’opera fu fatta e completata”.
Attualmente l’Epigrafe è in mostra presso Castelsismondo, a completare la mostra “Exempla”che il Meeting di Rimini ha organizzato, raccogliendo oltre un centinaio di opere del medioevo, in cui vennero impiegati i modelli dell’arte classica. Ma di solito l’Epigrafe si trova lì dove è stasta trovata, dove tutto è cominciato, nella Chiesa di San Martino in XX a Rimini.

Angela De Rubeis


IL RACCONTO: “COSì HO SALVATO L’EPIGRAFE”

L’Epigrafe di Federico II di Svevia, è esposta in Castelsismondo, assieme ad altre opere. Mi sono meravigliato nel vedere tutte assieme tante bellezze, ma credo che la storia dell’Epigrafe meriti di essere raccontata a prescindere dalla sua messa in mostra. È per questo motivo che voglio fare questa chiacchierata per far conoscere chi l’ha salvata, e poi, pensato di farla decifrare e infine organizzato la realizzazione di una pubblicazione per far conoscere al mondo uno straordinario fatto storico. Cominciamo dal principio.
A salvare l’Epigrafe fu don Lazzaro Raschi, parroco di San Martino in XX, che un giorno nello spianare il mucchio di macerie che i muratori avevano innalzato per riparare chiesa e canonica dai gravi danni che aveva causato il passaggio del fronte, venne alla luce. Attratto dalla forma e dall’iscrizione, la raccolse e la conservò in canonica. Era il tempo in cui stavo lavorando per conoscere e poi far conoscere attraverso un libro i tanti drammatici fatti cui aveva dato origine il passaggio del fronte, un periodo che con gran fortuna avevo passato sul monte Titano, dal quale ho potuto seguire, giorno e notte, i venti giorni di drammatici combattimenti. A San Martino mi ero recato dopo aver intervistato il compianto don Angelo Campana, parroco di San Nicolò, che si rifugiò a San Martino in XX per salvarsi dai bombardamenti. In realtà neanche in questo luogo stette davvero al sicuro.
Salito a San Martino, quando mi sono trovato di fronte a don Lazzaro, spiegato gli scopi della mia missione, mi disse che dal luogo in cui si trovava non poteva fornirmi nessuna notizia del passaggio del fronte perchè in quel tempo viveva a Canonica di Santarcangelo. Però quel viaggio non fu vano, perché don Lazzaro volle farmi vedere l’Epigrafe, poichè era curioso di conoscere il significato dell’iscrizione. Vista, fotografata, mi sono poi recato dal compianto Augusto Campana, grande esperto di epigrafia, il quale mi disse subito che conteneva un’iscrizione molto importante e così decidemmo anche di andare a vederla sul posto. Con la letture del testo, Campana scoprì che parlava del passaggio da San Martino in XX di Federico II di Svevia, con animali esotici. Quando divenne parroco di San Martino in XX don Probo Vaccarini, che conoscevo da vecchia data, per avermi raccontato la sua storia, di salvato, durante la tragica ritirata dei nostri soldati dal fronte russo, gli ho proposto di realizzare una pubblicazione per valorizzare e far conoscere a tutti il fatto che l’imperatore Federico II fosse passato da qui. Con l’aiuto della Cassa di Risparmio e grazie al lavoro di Anna Falcioni, esperta anch’essa di epigrafia, abbiamo realizzato un’importante pubblicazione, che ci fa conoscere pure il percorso, che al tempo di Federico faceva la strada romana che passava innanzi a San Martino, proseguiva per Vergiano, la Zonara, con l’attraversamento a guado del Marecchia, raggiungeva la vecchia Santa Giustina, allora posta ai margini del fiume ed infine si infilava nell’antica via Emilia che transitava innanzi alla Pieve di San Vito. Se l’Epigrafe è arrivata sino a noi dobbiamo dire grazie a don Lazzaro Raschi, don Angelo Campana, Anna Falcioni e la Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini.

Bruno Ghigi