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Lo sguardo di Dio e le nostre ombre

“Catechesi e persone con disabilità” è il titolo dell’ultimo seminario tenuto dal Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione a ottobre 2017. Segno di un’attenzione crescente al tema. Anche in Diocesi da tempo qualcosa si muove. Don Simone Franchin è oggi il referente diocesano per la catechesi dell’Iniziazione cristiana ai ragazzi disabili. L’abbiamo intervistato.

Come affrontate il tema?
“Vorrei fare una premessa: ognuno di noi è persona limitata e la fragilità che ne deriva è una qualità dell’uomo. Ognuno di noi fa esperienza del proprio limite fin da bambino quando per la prima volta piange perché ha bisogno che un Altro, la mamma, lo allatti al seno. Scopriamo il nostro limite nella corporeità, nel vivere la malattia, nell’invecchiare, nelle relazioni, nel nostro carattere, nella nostra psiche, nelle nostre disabilità… ma non vogliamo accettarlo. L’uomo è un “essere-nel-limite” per sua natura ma noi non accettiamo il nostro limite anzi lo consideriamo una condanna. Il limite nella persona può esprimersi in modo evidente nel corpo, sia nella fisicità (disabilità fisica) sia nella mente (disagio psichico), questo risulta insopportabile. Quando incontriamo una persona disabile sovente ci fermiamo al suo deficit, alla sua mancanza, al limite e questo ci scandalizza, ci fa arrabbiare, ci imbarazza, ci fa paura… riduciamo la persona al suo limite. Questa nostra disposizione del cuore rischia di non farci incontrare con la persona, ma di scontrarci con il limite suo che è anche il nostro. Il nostro cuore ha bisogno di riconciliarsi con il limite che siamo, per aderire alla propria realtà e riuscire ad incontrare la realtà dell’Altro. Nella vita spirituale si sta perdendo la dimensione contemplativa che ti insegna a guardare ma soprattutto a guardarti e sentirti guardato, a riconoscerti per ciò che sei.
Addentrarsi nella catechesi alle persone disabili comporta un serio lavoro su di sé prima che sulla didattica (sul come fare catechismo), è un educarsi ad abitare il limite, luogo dove la persona trova la sua verità e dove il Padre si rivela”.

I documenti della Chiesa affermano che senza fare della comunione eucaristica “lo scopo” della formazione religiosa, è normale che un disabile possa accedere all’eucaristia. Questo può accadere sempre?
“Certo. Il problema non è il deficit della persona, ma le situazioni di handicap (svantaggio) che l’ambiente, la società e le strutture creano alla persona non prendendo a cuore la sua difficoltà. È necessario nelle nostre parrocchie imparare ad avere uno sguardo attento, lo stesso che una mamma ha per il suo bimbo, nei confronti delle fragilità delle persone che incontriamo. Ad esempio se una persona sorda partecipa alla Messa si dovrà avere l’attenzione di chiamare un interprete, farla sedere ai primi posti per riuscire meglio a leggere il labiale di chi parla, fornire le letture del giorno scritte ecc… Ma tutto questo non basta perché correremmo il rischio di fermarci solamente ad una dimensione assistenzialista. È necessario iniziare un percorso inclusivo nel quale il disabile è soggetto della vita comunitaria non solo oggetto di attenzioni speciali. Le parrocchie e le associazioni possono essere grembo che genera alla vita in Gesù. Per farlo è necessario uscire dall’indifferenza e superare l’assistenza per diventare corpo, comunità, famiglia luoghi di appartenenza, luoghi inclusivi”.

Nel rapporto Eucaristia e disabilità assistiamo a molti estremi. Alcuni pensano che sia bene rifiutare l’Eucaristia con l’idea che “tanto, non capisce abbastanza”. Altri dicono di rifiutare la Comunione ritenendola “non necessaria” con l’idea pietista che “tanto, si salva lo stesso”… Cosa rispondi?
“Non ha senso dire “tanto non capisce” perchè Dio non passa solamente attraverso la dimensione intellettiva della persona, passa attraverso il corpo, i sentimenti, attraverso la dimensione affettiva ecc… se Dio rimaneva lassù in cielo potevano incontrarlo solo coloro capaci di pensarlo e immaginarlo, ma da quando è diventato corpo in Gesù, da quando Dio si è chinato su di noi ed è sceso in mezzo a noi, tutti possono essere visitati da lui. Dal momento in cui Dio si è fatto carne in Gesù, tutti abbiamo la possibilità di incontrarlo e sentirci amati da Lui. Alcune persone disabili hanno uno sviluppo intellettivo che si basa unicamente sul pensiero concreto per loro non è possibile accedere ad un linguaggio simbolico, astratto o teorico quindi, come per tutti noi, hanno bisogno che l’amore di Dio, perché sia compreso, passi attraverso un abbraccio, una carezza, una parola. Grazie all’incarnazione Dio ha reso accessibile a tutti il suo amore”.

C’è poi l’atteggiamento di dare sistematicamente, cioè senza alcuna preparazione, l’eucaristia pensando che in ogni modo queste persone «non capiranno mai niente» ma che ciò «farà piacere ai genitori».
“Dobbiamo uscire dal pregiudizio che ci fa guardare la persona come il suo limite e lasciare che sia la persona stessa a rivelarsi. Non esiste un metodo unico è necessario progettare la catechesi insieme alla persona disabile, ai familiari, alle persone che la seguono. È importante accompagnare, ascoltare, stare accanto ai genitori sostenerli nelle loro scelte poiché anche quelle più banali possono diventare determinanti per un bimbo con disabilità. Il cuore di mamma e papà da quando Dio si è fatto bambino in Gesù è diventato capace di contemplare e riconoscere la presenza divina in ogni figlio. Scopo della parrocchia è quello di accompagnare i genitori a questo sguardo contemplativo e nello stesso tempo la parrocchia deve imparare a guardare contemplando, solo così accoglierà includendo. Molti genitori di bimbi disabili sono grandi maestri in questo sguardo contemplativo, nel saper riconoscere la vita divina in quella del loro figlio, altri hanno bisogno di essere accompagnati”.

Il codice di diritto canonico esige che il bambino «capisca il mistero di Cristo secondo le sue possibilità e possa ricevere il Corpo del Signore con fede e devozione». Cosa significa questo nella condizione di un bambino gravemente disabile?
“La catechesi non è trasmettere al bambino ciò che si sa su Dio ma è servizio di un incontro tra la persona disabile e Dio. La catechesi deve solamente accompagnare l’altro a volgere il suo sguardo verso Gesù. L’eucarestia è la persona di Gesù. E per accompagnare all’incontro è necessario prima di tutto che io senta la persona di Gesù accanto a me per poterla presentare all’altro. Spesso facciamo catechismo parlando di Gesù senza averlo accanto a noi. Un bambino gravemente disabile può capire il mistero di Cristo perché, come ho detto, Cristo si è reso accessibile a tutti ma noi non dobbiamo pretendere che capisca con le nostre categorie cognitive. Di per se è semplice: nel momento in cui io e lui troviamo il modo di relazionarci quello sarà anche il modo con cui ci relazioneremo con Dio. “Dio non può chiedere a una sua creatura nient’altro e nulla di più di quello che essa è capace di offrirgli” (H. Bissonnier). Ciò non significa banalizzare la catechesi anzi significa accompagnare il bambino in un lavoro lungo e impegnativo soprattutto per il catechista al quale sarà richiesto l’imparare ad entrare in relazione attraverso forme non verbali, il formarsi ad uno sguardo contemplativo, il riscoprire la pedagogia della risurrezione dove Gesù vince ogni malattia ed ogni morte per mezzo del suo amore”.

A volte si ha la sensazione che anche un bambino, un adolescente o un adulto che si esprimono appena, possono essere capaci di capire quel che si dice molto più di quanto immaginiamo. Qual è la tua esperienza.
“L’esperienza che posso raccontare riguarda alcuni bambini con grave ritardo mentale.
Con loro ho vissuto un momenti di preghiera molto intensi che sono stati mediati attraverso il corpo con carezze, abbracci, baci sul naso, labbra appoggiate sulla fronte, cambiare il pannolino e infine la loro testa che si appoggiava sul mio petto. Gesti di grande tenerezza e prossimità che riverberano dentro di te. Nel momento in cui tu preghi entri in una pace particolare che anche l’altro “sente” stando in braccio a te, così si entra insieme in una dimensione contemplativa particolare, precisa, in un silenzio che non ha a che fare con la pace del bimbo quando è rilassato ma con La Pace di Dio. È una dimensione spirituale che passa attraverso il corpo… non solo il mio, come in tutte le preghiere, ma attraverso quello del bimbo che sta con me, è una relazione spirituale che passa attraverso i nostri corpi per diventare Corpo di Cristo, corpo che si consegna… non so se riesco a spiegarmi, per capire dovreste provare.
Siamo spesso rivolti a “fare qualcosa” per le persone disabili generando questa distinzione: io soggetto che ti accudisco, tu che sei oggetto delle mie cure. Pregare insieme mette entrambi sullo stesso piano: tutti desideriamo sentirci figli amati. La condizione di figlio è quella di chi è cosciente della propria fragilità ed accoglie l’Altro che si prende cura di lui.

a cura di Giovanni Tonelli