C’è un segno che, meglio di tanti libri o di complicate meditazioni erudite, esprime con sintesi ed efficacia la storia della nostra città nell’ultimo secolo e mezzo: il grafico della popolazione nel comune dal 1861 al 2009. Un segno che, da semplice rappresentazione di un fenomeno demografico, sa tramutarsi in una “fotografia” straordinariamente ricca di informazioni su quando, come e perché Rimini si è trasformata così profondamente e così velocemente. Una linea che sa parlarci di dinamiche sociali ed economiche, ma anche di identità, di memoria e di valori ai quali qui, in sintesi, in estrema sintesi, accenneremo.
Innanzi tutto il dato base: in centocinquant’anni la popolazione della città è più che triplicata con un incremento praticamente doppio rispetto alla media nazionale. Se si depura il dato riminese dall’incremento presunto per natalità, dal 1861 al 2009 la popolazione risulta aumentata di circa 85.000 unità, praticamente del 260%. E ciò, chiaramente, a causa dell’immigrazione di genti, vicine e lontane, attratte dalla possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita che la nuova industria del turismo (ancora “nuova” al 1861 e ancora a valori crescenti nel 1960) poteva offrire.
Ottantacinquemila persone dai più svariati mestieri, e dai più diversi dialetti, che si sono progressivamente affiancate alle preesistenti trentaduemila senza traumi sociali, con una integrazione “naturale” che è la testimonianza oggettiva di una delle specificità di questa terra: la cultura dell’accoglienza. Accoglienza che, non per nulla, è anche alla base della sua attività economica prevalente e che è figlia di valori che tutt’ora costituiscono i punti di forza della sua poderosa macchina dell’ospitalità: il rispetto della persona e delle diversità, e la tolleranza. Valori e cultura che sono stati fatti propri dai cittadini che, via via, qui si sono accasati.
Dal grafico emerge un altro dato significativo: quasi metà della popolazione attuale ha radici riminesi che non affondano oltre il 1950. Una massa enorme, in termini di peso percentuale, di nuovi cittadini i cui genitori, nonni o bisnonni riposano ad Ascoli Piceno, a Caserta o a Mondovì, i cui ricordi famigliari – la famiglia è la fonte più efficace di trasmissione dei legami con i luoghi, le storie e la storia – sono radicati in luoghi e in storie che nulla hanno a che fare con questa terra.
Parrebbe facile accostare i pionieri che hanno creato il mito di Rimini capitale del turismo e i cow boys che hanno colonizzato l’America. Gli uni e gli altri, infatti, si sono lanciati all’avventura, lasciando il passato nei luoghi d’origine, per costruirsi una nuova vita in nuovo mondo.
Ma le grandi praterie del West, salvo qualche tribù di indiani qua e là, erano terre vergini praticamente senza storia. Da queste parti, invece, in più di duemila anni, ai periodi di buio e di povertà, si sono alternati momenti di luce e di splendore che hanno posto la città in primo piano sul palcoscenico della civiltà. Basti pensare soltanto alla Rimini di Augusto e di Sigismondo e ai gioielli che ancora testimoniano di quanta bellezza e di quanta perfezione siano stati capaci gli antenati di quei trentamila riminesi del 1861. Riminesi “doc” che sono stati invasi e praticamente conquistati da ottantacinquemila lavoratori tutti intenti a costruire la nuova riviera senza mai trovare il tempo per accorgersi di Giotto, dell’Alberti o di Piero della Francesca. Certo, l’invasione è stata pacifica, ma ha modificato in maniera talmente veloce e radicale sia il paesaggio umano che quello naturale provocando, necessariamente, non pochi traumi e non pochi danni.
Se il nostro grafico non può mostrare la trasformazione dell’ambiente, traccia comunque con tutta evidenza l’impennata degli “invasori” che dagli anni Cinquanta si sono accalcati a ridosso del mare costruendo quanto oggi è sotto gli occhi di tutti e che a tutti, oggi, è fin troppo facile condannare, dimenticando il benessere, diffuso e duraturo, che quella fabbrica, apparentemente disordinata, ha saputo e sa ancora produrre per i suoi cittadini e per i suoi ospiti.
Recentemente, la Provincia ha pubblicato una ricca serie di dati statistici relativi al territorio dei suoi 27 comuni, un’opera importante alla quale speriamo possano seguire adeguati studi ed analisi che ci aiutino a meglio comprendere le dinamiche del nostro territorio.
Ma già la nostra linea che ritrae Rimini 1861-2009, pur frutto di dati statistici “grezzi” e di elaborazioni sommarie tutte da affinare, è un primo prezioso strumento di riflessione, utile non solo per le analisi ma anche per il suo valore di indicazione, come oggi s’usa dire, “strategica”.
Dimostra chiaramente, infatti, come sia giunto il momento, per quella massa di nuovi riminesi insediati dopo gli anni Cinquanta, di trapassare dal ciclo dell’insediamento “operoso”, rivolto in prevalenza al lavoro e al denaro, a quello dell’identificazione con la città in tutta la sua dimensione. È giunto il momento di affondare le radici ancor più in profondità, di conoscere, di vivere e di valorizzare i gioielli dell’arte, della cultura e della natura che hanno reso Rimini, la rendono e ancor di più la potranno rendere nel futuro, bella e attrattiva.
Ed è anche giunto il momento di volgere lo sguardo all’Appennino e ricomprendere nell’idea di città tutto quel territorio, un tempo del Malatesta, che altro non attende che di essere conosciuto, rispettato, vissuto, amato e riconciliato con equilibrio con una costa ormai troppo affollata.
Per concludere questa nota sommaria, ecco due ultime immagini, tra quelle che emergono dalla nostra “fotografia”, e una prospettiva.
Rimini è una città che da centocinquant’anni vive una tensione positiva.
Rimini è una città giovane dalle radici antiche e la qualità del suo, del nostro futuro, dipende da quanto queste due dimensioni sapranno esser vicine.
Ferruccio Farina