Le parole sono importanti, e bisogna usarle in modo preciso. Lo chiamano “il mestiere più antico del mondo”, ma c’è qualcosa che non va. Un mestiere, per essere tale, solitamente lo si fa volontariamente. Perché in caso contrario non sarebbe più un mestiere, ma uno sfruttamento. “Sfruttamento della prostituzione”, questo è il termine giusto. Nella storia del mondo ci sono state prostitute che hanno scelto di farlo? Sicuramente. Ma non è ciò che avviene oggi, nella nostra città.
Lo racconta Mara Poggiali, riccionese di 46 anni, che da 20 incontra e assiste le ragazze di strada a Rimini attraverso il Servizio Antitratta della Comunità Papa Giovanni XXIII. Grazie alla sua esperienza, quotidiana e in prima persona, è possibile capire la situazione delle ragazze di strada nella Rimini di oggi, e scoprire che un futuro vero, per chi fa, o meglio, è costretta a fare “il mestiere più antico del mondo”, è possibile.
Mara, partiamo dall’inizio. Come hai incontrato il Servizio Antitratta della Comunità Papa Giovanni XXIII?
“Ho cominciato come volontaria nella Comunità. Prima di tutto sono stata nella Capanna di Betlemme a Rimini, e successivamente sono stata mandata a fare servizio in una Casa Famiglia. La ‘mamma’ della Casa Famiglia era anche la responsabile del Servizio Antitratta, e in quel periodo faceva assistenza a diverse ragazze provenienti dalla strada. E così, grazie a lei, ho avuto i miei primi contatti con questo mondo, che ho scoperto essere molto diverso da quello che si poteva pensare”.
In che senso?
“Nel vedere le ragazze sulla strada, il pensiero dominante era che fossero lì volontariamente. Che avessero deciso di prostituirsi per scelta, come fosse un lavoro come un altro. Grazie alla vita in Casa Famiglia e al contatto con il Servizio Antitratta, però, ho potuto sentire molte storie di ragazze che erano finite in strada perché costrette da quelli che vengono definiti i loro ‘morosi’. E così ho deciso di unirmi a questo servizio”.
Come funziona?
“Ogni giovedì sera usciamo con il mezzo della Comunità e andiamo a incontrare le ragazze che sono in strada. Siamo un bel gruppo di persone, sia membri di Comunità sia volontari che fanno solo questo servizio. Ci fermiamo a debita distanza, scendiamo, e andiamo a parlare con loro: ci facciamo raccontare la loro situazione, le loro storie, e spieghiamo loro la realtà della Comunità, e tutte le possibilità che possiamo offrire per uscire dalla strada, come percorsi di accoglienza e sostegno, psicologico e sanitario, e la possibilità di cambiare città per ricominciare una nuova vita, anche nell’immediato”.
Per la sua esperienza, cosa può dirci della situazione attuale delle strade riminesi?
“Le ragazze sono tante. Sono prevalentemente europee, anche se abbiamo visto qualche ragazza africana, soprattutto nigeriane, e anche qualcuna proveniente dalla Cina (inavvicinabili, soprattutto per la barriera linguistica). E poi ci sono molti trans, provenienti un po’ da tutto il Sudamerica. ‘Per fortuna’, tutte le ragazze che abbiamo potuto incontrare sono maggiorenni, con un’età che di solito oscilla tra i 18 e i 35 anni. Alcune le seguiamo per tanto tempo, si creano rapporti che durano anche mesi, ma ci sono anche ragazze che ci vedono per la prima volta e il primo contatto è delicato, soprattutto per quanto riguarda il rapporto che hanno con il proprio ‘moroso’”.
Ci racconti.
“Quando ci avviciniamo, vediamo le più diverse reazioni: alcune si allontanano, perché magari non ci conoscono e non hanno interesse a farlo, oppure c’è chi ci dice subito che non può parlare e deve ‘lavorare’. Con altre, invece, riusciamo a instaurare un primo rapporto che poi, ogni settimana, ci consente di scoprire qualche tassello in più della loro storia e della loro situazione”.
Ecco, parliamo di storie. Quali sono le esperienze di vita che emergono dagli incontri con queste ragazze?
“Tendenzialmente ciò che emerge per primo sono gli obiettivi per i quali avrebbero ‘scelto’ la via della strada a Rimini: ‘lavorare’ per guadagnare molto, costruirsi una vita serena qui, cose di questo genere. Ma col tempo, approfondendo il rapporto, di solito scopriamo che queste ragazze hanno storie molto difficili alle spalle: genitori separati, padre o madre alcolista, o assenti. Problematiche importanti, che fanno sì che, intravista in un uomo l’unica ancora di salvezza, si accetti di prostituirsi, sottomettendosi. Anzi, addirittura a volte queste ragazze sono legate da un vero sentimento di affetto nei confronti di chi le ha messe sulla strada. Un sentimento distorto, perché il ‘moroso’ è visto come unica soluzione ai propri problemi, ma talvolta sincero. E quindi diventa delicato e complesso spiegare loro che quello non può essere amore, perché nessun uomo accetterebbe di condividere, sulla strada, una donna che si ama”.
Quale vita può ricostruirsi una ragazza che riesce a uscire dalla strada?
“Una vita normale, serena. Sono ancora in contatto, soprattutto attraverso i social network, con tante ragazze che abbiamo incontrato in passato, e vedo che oggi vivono una vita normale e felice. Alcune si sono sposate, e hanno figli. E poi c’è un fatto in particolare, che è il più potente: ci sono ragazze che, attraverso la rete della Comunità Papa Giovanni in tutta Italia, oggi scendono in strada con noi per aiutare, a loro volta, le prostitute. Non si sono, dunque, solamente ricostruite una vita, ma hanno deciso di metterla al servizio di chi era come loro. E questo non è solo molto bello, è anche utile: seguire ragazze con persone della loro stessa nazionalità è un aiuto grandissimo, dà loro fiducia, e fa capire che un’altra vita è possibile”.
Secondo lei, le istituzioni a Rimini come stanno affrontando questo tema?
“Ci sono le ordinanze, ma sono strumenti estivi, o comunque periodici. E sono strumenti indirizzati più al decoro della città che al contrasto allo sfruttamento di queste ragazze. In generale, però, va detto che le città non hanno strumenti incisivi in questo senso, perché la prostituzione non è vietata. Ne è vietato lo sfruttamento, ma la prostituzione in sé no, e quindi la situazione rimane in una sorta di limbo da cui si può uscire solo con interventi più decisi, che arrivino dall’alto, da leggi nazionali. Purtroppo, però, ed è un parere mio, interventi incisivi in questo senso non vengono realizzati probabilmente perché è la mentalità ad essere sbagliata, anche ad alti livelli”.
Ecco, per concludere, il tema della mentalità. Guardando al futuro, è a livello culturale che bisognerebbe intervenire per cambiare la situazione?
“Sì. Come Comunità Papa Giovanni XXIII portiamo avanti da tempo una campagna chiamata ‘Questo è il mio corpo’, che si focalizza sull’obiettivo di punire il cliente: è lui il vero responsabile, perché senza di lui non avrebbe senso sfruttare le ragazze e mandarle sulla strada. È sulla loro mentalità che bisogna intervenire: al giorno d’oggi ci sono clienti di ogni tipo, nazionalità, età e classe sociale. È una cultura trasversale, purtroppo, che distorce il concetto di libertà e dignità del corpo della donna. Proprio in questi giorni Rimini sta agendo anche nell’ottica di colpire il cliente, e questo è un bel segnale. Ma occorre fare di più, colpirlo non solo con il disincentivo delle sanzioni, ma arrivare a un vero e proprio cambio culturale”.