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Quando sono i profitti a soffiare sull’inflazione

I più anziani ricorderanno la discussione, piuttosto accesa, della metà degli anni Ottanta, sulla necessità, sostenuta dal Governo dell’epoca (Craxi), raccogliendo le pressioni delle associazioni imprenditoriali, di abolire la scala mobile.

Un meccanismo che consentiva ai salari di recuperare il potere d’acquisto perso a causa dell’inflazione. Un intervento che faceva seguito, non anticipava. Fu abolito per legge e per il suo ripristino si andò persino ad un referendum, ma la richiesta fu rigettata dalla maggioranza del corpo elettorale. Al centro del confronto c’era quella che veniva definita, e tuttora riappare, la rincorsa prezzi-salari, che non avrebbe consentito all’inflazione di scendere, perché le imprese avrebbero cercato di ricaricare sui prezzi il maggior costo del lavoro, in una soluzione senza fine. Qualcosa di vero c’era, ma è innegabile che si trattò soprattutto di una battaglia politico-ideologica. La riprova ce l’abbiamo proprio in questo periodo. Tra il 1990 e il 2020, le retribuzioni lorde in Italia sono scese del 3%, mentre in Germania crescevano del 33% e in Francia del 31%.

Negli ultimi due anni (2021-2022) la crescita dei salari nazionali è stata di appena il 2%, meno della metà della media europea, eppure l’inflazione non scende, anzi pare tornare a salire. Come mai? Non potendo più invocare la rincorsa prezzi-salari, e nemmeno il prezzo dell’energia come causale oramai tornato (il metano) ai livelli pre-guerra, gli imprenditori e la maggioranza, compresi troppi media, preferiscono tacere.

Così nessuno parla, salvo rare eccezioni, dell’inflazione da profitti. Lo ha fatto Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea, poco ascoltata, che ha avuto il coraggio di dire che “i profitti delle imprese stanno alimentando l’inflazione”. Non le se può dare torto. La lista delle grandi imprese che ritoccano i loro listini per guadagnare di più, e magari ricomprare azioni proprie, alimentando i bonus degli amministratori, è sempre più lunga: Eni, azienda di Stato, nel primo trimestre 2023 ha annunciato 5 miliardi di utili (ma la benzina non diminuisce), quelli della StMicroelectronics (componenti elettronici) sono aumentati del 100%, i guadagni dell’Oréal del 24%, di Essilor Luxottica del 50%, della Stellantis (ex Fiat) del 25%, delle maggiori banche nazionali il 60%, consentendo alle retribuzioni dei manager di attestarsi su valori pari a 86 volte i salari medi del settore.

Questo sta accadendo un po’ dappertutto: dall’agricoltura, alla manifattura, fino ad arrivare ai servizi. Tanto che nell’ultimo trimestre 2022, secondo il Centro ricerche francese Rexecode “gli utili hanno contribuito al 62% dell’inflazione”. Insomma, siamo passati dalla scala mobile dei salari, alla scala extra mobile dei profitti. Con la differenza che nessuna invoca una legge per bloccare questa spirale.

Il risultato è che tre quarti degli italiani, intervistati da un sondaggio, al termine capitalismo associano caratteristiche poco positive del tipo: “Conta solo il risultato” e “l’avidità” (Zitelmann, Elogio del capitalismo). Come dargli torto. Poi non sorprendiamoci se un Amministratore delegato può guadagnare oggi quattrocento volte il salario medio, contro le venti volte degli anni Settanta del secolo scorso. Vecchi amministratori che non avevano certo meno meriti. Chiedere a queste imprese di pagare qualche tassa in più non sarebbe certo fuori luogo. E forse persino popolare.