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Quando la perfezione diventa possibile

Esther, il basso Alex Ashworth (Haman) © Thomas Ziegler

Al Festival di Halle straordinaria esecuzione dell’oratorio haendeliano Esther da parte dei Solomon’s Knot 

HALLE, 25 maggio 2024 – «La perfezione non è di questo mondo». Lo si dice spesso, forse più per consolarsi e trovare giustificazioni a qualcosa che ci ha deluso, anziché per intime convinzioni. L’esecuzione di Esther, ascoltata al Festival di Halle, rappresenta però la miglior smentita di questa affermazione. Complice forse l’ottima acustica del Duomo cittadino (un tempo antico monastero), ma soprattutto la straordinaria bravura degli esecutori, l’ensemble vocale-strumentale Solomon’s Knot: musicisti formatisi nei migliori college inglesi, capaci di far sembrare del tutto naturali e spontanee le più ardue difficoltà.

Esther, l’oboista Daniel Lanthier © Thomas Ziegler

La versione di Esther proposta a Halle, in realtà, è la prima: ossia il masque a carattere biblico, suddiviso in sei scene (solo in seguito verrà trasformato in oratorio), forse composto intorno al 1718. Anche la paternità del libretto resta incerta, mentre è sicuro che la fonte letteraria sia l’omonima tragedia di Jean Racine: del resto il filone francese, che caratterizza questa edizione del festival, accomuna tutte le scelte di programma.

All’ascolto si rimane subito sorpresi dalla grande modernità della partitura e, soprattutto, dall’innovativo ruolo assunto dal coro, formato dai dieci solisti vocali. Probabilmente le straordinarie qualità di Esther sarebbero emerse comunque, anche con altri interpreti, ma gli strumentisti e i cantanti presenti nel Duomo di Halle – peraltro tutti piuttosto giovani – hanno valorizzato l’esecuzione come meglio non si sarebbe potuto auspicare, esaltando soprattutto la straordinaria compattezza drammatica di questo lavoro giovanile di Händel.

Gli interpreti vocali, oltre a cantare rigorosamente a memoria, senza supporto di leggii, non avevano neppure la classica posizione statica delle esecuzioni oratoriali: ogni volta si portavano in prossimità dell’abside da punti diversi della chiesa, con gestualità e mimiche facciali spesso teatralissime. Sarebbe forse più corretto parlare – anziché di concerto – di ‘mise en espace’, in grado di rendere più facile la comprensione delle tensioni drammatiche della vicenda. Si rimane folgorati e avvinti dalla musica fin dall’esordio del basso, l’eccellente Alex Ashworth, che con voce robusta e rotonda ha disegnato Haman, il cattivo della situazione. L’impeccabile soprano Zoë Brookshaw ha impresso alla protagonista toni lievi e accorati; allo stesso modo Kate Symonds-Joy ha avuto accenti toccanti nella splendida aria Preise the Lord with cheerful noise, concepita per la giovane voce di un ragazzo israelita, ma qui affidata al soprano che duetta con l’arpa (una novità per l’epoca).

Ben quattro i tenori, a cominciare dall’ottimo caratterista David de Winter (il primo a entrare in scena), proseguendo con Joseph Doody – voce timbratissima e linea di canto perfettamente omogenea – nei panni di Mordecai, genitore adottivo di Esther. Dal canto suo, Xavier Hetherington restituiva con autorevolezza la vocalità più spinta del re Assuerus, mentre, nella scrittura più “di grazia”, Thomas Herford (il Primo israelita) riusciva a salire in acuto con la massima facilità, senza che la voce si sbiancasse mai. A completare il quadro, l’ottimo controtenore James Hall nel ruolo del Gran sacerdote: nella sua aria Jehovah crown’d, quando duetta con i corni, sembra di scorgere qualche reminiscenza della celeberrima Water Music.

Eccellente pure l’organico strumentale – archi, legni e clavicembalo – in cui si sono imposti l’ottimo oboista Daniel Lanthier, così come le magnifiche fagottiste Inge Maria Klaucke e Sally Holman, oltre a Eva Caballero al traversiere, Kathryn Zevenbergen e Kate Goldsmith ai corni, e Fruszi Hara alla tromba. Del tutto defilato Jonathan Sell, direttore e concertatore al cembalo, che – con british aplomb – sembrava quasi non esser coinvolto nell’esecuzione: musicisti così bravi, del resto, non hanno alcun bisogno di esser tenuti sotto l’ala.

E dopo il meraviglioso coro conclusivo, pagina che rappresenta uno dei vertici della scrittura haendeliana (The Lord our Enemy has slain, interpolato da interventi solistici), è esploso l’entusiasmo del pubblico che –  numerosissimo – affollava il Duomo. Quasi un boato.

Giulia  Vannoni