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Pier Damiani e la riforma nel Riminese

Nella Romagna uomo di punta della corrente riformatrice fu Pier Damiani.
Pier Damiani era nato a Ravenna forse nel 1007 e, compiuti gli studi a Ravenna e a Faenza, si era dedicato all’insegnamento, maturando progressivamente l’idea di abbracciare la vita monacale, finché a 28 anni era entrato nel monastero di Fonte Avellana, fondato qualche decennio prima dal ravennate san Romualdo. Di questo monastero fu priore per quattordici anni, praticando e raccomandando un’austera vita di preghiera, di povertà e di carità fraterna. Chiamato suo malgrado fuori dal monastero fu in seguito consigliere di papi e di imperatori.
Impegnato a coinvolgere i vescovi della Romagna nel movimento di riforma, intrattenne intense relazioni anche con i vescovi di Rimini.

La situazione del Riminese
La situazione del Riminese era, in questo secolo, particolarmente complessa. Facendo parte della bizantina Pentapoli era tra quei territori che Ludovico il Pio aveva ceduto al papa Pasquale I nell’817, ma non esistendo ancora uno “Stato della chiesa” per la mancanza di qualsiasi struttura amministrativa, i territori erano governati dai membri delle aristocrazie locali, spesso in rapporto di vassallaggio col vescovo. Data al 17 ottobre 1059 un documento che concede ai conti Everardo e Marozia la gestione vitalizia di una quantità enorme di terre, castelli e pievi di proprietà episcopale. Il canone era piuttosto esiguo, ma in compenso i conti si impegnavano a corrispondere servizi di natura militare. Molti altri territori del Riminese appartenevano invece al monastero di Pomposa e a parecchi enti ecclesiastici di Ravenna. Altre realtà dipendevano direttamente dal papa, come il monastero dei Santi Pietro e Paolo, vicino al ponte di Tiberio, che poi venne chiamato di San Giuliano, il cui abate, per privilegio di Nicolò II (privilegio riconfermato da Gregorio VII) doveva essere eletto senza alcuna interferenza del clero diocesano e del vescovo e, tanto meno, delle autorità civili. A complicare una situazione già di per sé complessa si aggiungeva la tendenza autonomista dei vassalli e la volontà degli imperatori di Sassonia di non riconoscere le concessioni di Ludovico il Pio. Tant’è vero che quando Ottone I era sceso in Italia nel 962 aveva assediato Berengario a San Leo, senza tener affatto conto che il territorio fosse parte del Patrimonio di Pietro.
E non è certo un caso che l’imperatore Enrico IV, dopo aver lasciato Roma nel 1082, prima di dirigersi verso le terre di Matilde di Canossa, abbia trascorso qualche tempo a Rimini.

Il vescovo Opizzone
Le difficoltà dell’epoca sono bene riassunte nella figura del vescovo Opizzone. Della sua buona reputazione fa testimonianza il fatto che nel 1070 Pier Damiani pose il monastero di San Gregorio sotto la sua protezione e ne concesse a lui e ai suoi successori la piena proprietà. Di lui inoltre è testimoniato lo sforzo di creare rapporti armonici con le istituzioni diocesane – i canonici della cattedrale, le pievi e i monasteri cittadini e del contado – assegnando a tutte cospicui donativi, con la raccomandazione di “conservarli e amministrali con cura”, nella convinzione che la tutela del patrimonio di chiese e monasteri fosse preliminare e indispensabile anche per l’efficienza liturgica, il rispetto della disciplina e la stessa vivacità spirituale.
Però dopo che il sinodo di Bressanone elegge l’antipapa Clemente III, a partire dal 1084 Opizzone abbandona la tradizionale fedeltà alla sede apostolica dei vescovi di Rimini e si schiera a favore dell’impero. Questa scelta di campo politicamente poco avveduta fu probabilmente la causa delle gravi difficoltà economiche in cui si trovò negli anni seguenti l’episcopato di Rimini. O forse furono le spogliazioni dei beni della chiesa da parte di laici mai sazi o, forse, le ripetute concessioni ai canonici di Santa Colomba. Il paradosso è che proprio all’imperatore si raccomandò il papa Pasquale II perché venisse in aiuto all’episcopato di Rimini che si era trovato denudato di quasi tutti i suoi beni (1111).

Il monastero rurale
Nonostante le difficoltà, tuttavia, anche il Riminese partecipa al più generale movimento di riforma della Chiesa.
Pier Damiani a Rimini instaura strette relazioni con il vescovo Uberto III, che definisce “reverendissimo e onestissimo presule” nella famosa lettera 40, che ha per argomento la validità dei sacramenti amministrati dai simoniaci; per lui nel Natale del 1057 scrive un sermone Intrattiene anche rapporti con la migliore aristocrazia del tempo, come testimonia l’epitaffio per Bennone di Vitaliano, capostipite di un’ importante famiglia di vassalli episcopali, morto nel 1050.
Ma la sua presenza nel Riminese è importante soprattutto per la fondazione del monastero di San Gregorio in Conca a Morciano.
In precedenza, infatti, i monasteri avevano avuto un carattere esclusivamente urbano, secondo il modello della vicina Ravenna, che, si è visto, possedeva nel Riminese una notevolissima quantità di beni: fondi, appezzamenti di terra, aziende agricole, immobili. Il monastero di San Gregorio, inserito nell’area di influenza della sede Apostolica per volontà di emancipazione da Ravenna, è il primo monastero rurale di cui si abbia notizia. Come gli altri monasteri benedettini dei Santi Pietro e Paolo e di San Gaudenzio poté contare su un ingente patrimonio di terre e castelli, donato da Pietro Bennone. Patrimonio destinato ad aumentare grazie alle donazioni pro anima. I tre monasteri benedettini ebbero un ruolo importante perché fino dalle loro origini non si presentarono come comunità separate, ma mantennero una grande apertura verso la realtà sociale. Non solo strinsero alleanze con le famiglie nobili alle quali demandavano l’amministrazione dei loro beni, ma furono anche molto attivi nella cura d’anime, facendo penetrare nella vita quotidiana della popolazione l’ideale ascetico fatto di lavoro, preghiera e obbedienza. Possedevano infatti pievi, chiese e ospedali, dove si faceva opera di assistenza, si istruivano i fanciulli, si predicava al popolo, si celebravano i sacramenti e le cerimonie legate alle più importanti festività cristiane. Sul piano pastorale collaboravano strettamente col vescovo, anche se sul piano giurisdizionale a volte erano violentemente contrapposti. Col tempo, però, finirono tutti per rientrare nell’ambito della giurisdizione del vescovo. Il primo a farlo, poco tempo dopo la fondazione, fu proprio il monastero di San Gregorio, che nel 1070 venne donato dallo stesso Pier Damiani al vescovo Opizzone. Sembra per appianare qualche “irregolarità”, dal momento che molti dei beni che Pietro di Bennone aveva donato al monastero erano in concessione da tempo alla sua famiglia, ma erano, in realtà, proprietà del vescovo di Rimini e della chiesa di Ravenna. Un ulteriore indizio della confusione dei tempi!

La riforma del clero secolare
L’esigenza di riforma, partita dai monasteri venne estesa anche al clero secolare. Ne è testimonianza la Vita di Arduino, che fu composta nella prima metà dell’XI secolo, poco dopo la morte del monaco, e inserita nel secolo successivo nel Passionario della cattedrale a disposizione dei chierici. L’agiografo, che alcuni ritengono essere lo stesso Pier Damiani, racconta che Arduino aveva ceduto tutte le sue proprietà ed era diventato sacerdote per essere continuamente a servizio di Cristo; in seguito si era allontanato dai suoi confratelli perché li vedeva corrotti e si era rifugiato presso l’umile Venerio, col quale aveva iniziato a fare vita in comune, dedicandosi alla preghiera, al lavoro manuale, alla lettura, ma senza rinunciare ad essere sacerdote: alle persone che, nonostante il suo ritiro, si recano da lui e lo ricompensano con doni per i suoi consigli (doni che lui usa per i poveri) egli non dona in cambio la preghiera monastica, ma – in quanto sacerdote- il sacrificio eucaristico.
È evidente che il modello di vita che sta a cuore all’agiografo e che lui vede realizzato in Arduino è quello della canonica “riformata” o “regolare”. Era stato il sinodo romano del 1059, presieduto da Ildebrando, che, facendosi promotore della santificazione del clero secolare, aveva invitato i canonici delle cattedrali e delle collegiate a rinunciare al possesso dei beni privati e a fare vita in comune. Coloro che avevano aderito, vennero appunto chiamati “regolari” o “riformati”, mentre gli altri vennero chiamati “secolari”.
In realtà, il modello di canonica “riformata” a Rimini non venne interamente realizzato: i canonici fecero vita in comune, ma non rinunciarono al possesso dei beni privati, come ci testimoniano i riferimenti a prebende personali che si trovano nei documenti.
La riforma a Rimini si declinò in modo tradizionale, piuttosto come il riordino della amministrazione dei patrimoni che come rinuncia ad essi. Questo nella convinzione che la prosperità sia un dono del Signore e che permetta di governarsi nel modo migliore e di non disperdersi. Probabilmente espressione del ceto dominante del territorio, i canonici ritengono di non poter permettersi di intraprendere un percorso di riforma troppo rigido, per non vedere compromesso il loro ruolo politico e sociale, in un equilibrio sempre da ricostruire con gli altri enti ecclesiastici e con l’aristocrazia laica.

Le 25 pievi del territorio
Un analogo sforzo di riordino investe anche il sistema delle pievi, nate nell’VIII secolo come circoscrizioni territoriali facenti capo ad una chiesa battesimale, dalla quale dipendevano a loro volta chiese minori. Documentate in numero di sedici in epoca anteriore al Mille, esse vengono aumentate di numero (fino a venticinque) e continuamente ridisegnate nei confini territoriali e nel numero delle chiese minori che fanno capo ad esse; sono chiamate progressivamente a collaborare coi monasteri insediati sul loro territorio e molte di esse vengono nel tempo private di alcune prerogative a vantaggio di chiese situate in centri abitati ormai consolidati, alle quali sole è riconosciuta la “cura delle anime” ed è concesso il fonte battesimale. Come è il caso di Verucchio. Questi interventi nascono evidentemente dalla preoccupazione di una pastorale efficace, che mira a raggiungere tutti senza essere dispersiva. Ma è con rammarico che dobbiamo constatare che le fonti a nostra disposizione riguardano quasi esclusivamente le condizioni patrimoniali e le contese giurisdizionali piuttosto che le preoccupazioni pastorali, la vita di fede e le diverse forme di spiritualità. (3 – continua)

Cinzia Montevecchi