Pesca: la filiera è tutta una crisi

    È crisi. Tutt’intorno è crisi. Uno tsunami che non è solo emergenza mediatica, ma realtà che si percepisce nel quotidiano. Dal precariato, ai rincari, dalla pasta alla benzina, dai crolli in borsa ai piani di risanamento nazionale, è tutta una crisi. E l’onda anomala ha colpito pure il porto di Rimini e il settore ittico per intero. Parliamo di oltre 200 imprese attive nell’intera derivano. In poche parole spendono meno, ma pescano anche meno e i conti continuano a non tornare”. Il mare si impoverisce, quindi? E per questo che c’è crisi? Anche e non solo.
    A prescindere da ogni fattore esterno, ci sono degli andamenti fisiologici tutti “sommersi” nel mare che da soli riescono a modificare un bilancio annuale. Basta per esempio che una specie rimanga a riposo che tutto cambia. Attualmente il mare offre meno rispetto al passato, questo è certo.

    Tiratina d’orecchie
    Un rimprovero ai pescatori che contrariamente a quanto previsto dalla legge, non ributtano in mare il pesce “troppo piccolo” che gli capita sotto rete. L’impoverimento del mare passa anche da qui, da questa cattiva pratica. Se dal mercato all’ingrosso ci assicurano che il pesce sotto taglia non lo prendono, è anche vero che i consumatori sui banchi al dettaglio lo trovano. E allora come ci arriva? Semplice, vale la regola belli fuori brutti dentro, in questo caso grandi in bella vista, piccoli verso il fondo. Quando i pescatori portano al mercato una cassetta, hanno la cattiva abitudine di mettere il pesce “in regola” in cima e in bella vista, mentre sotto mettono qualche “scartino” non regolamentare. A dirlo sono i compratori. Arcano svelato. Atteggiamento poco lungimirante, che sul lungo periodo rischia un costante impoverimento della loro principale risorsa: il mare.

    Parola agli uomini di mare
    Nino B. ha venduto la sua barca. Un’imbarcazione di più di 20 metri che a malincuore ha dato via ma: “non era possibile fare altro, perché le spese rischiavano di mangiare il valore stesso della proprietà”. Problema principale il caro gasolio. Un equipaggio formato da 4 persone, compreso il capitano, 16mila euro d’incasso al mese, 12mila euro di spese, 9mila dei quali impiegati nell’acquisto di carburante. Rimane poco da destinare agli stipendi, “senza dimenticare che stiamo parlando di un lavoro usurante e faticoso. Non ne valeva più la pena”. Nei giorni più neri il gasolio è arrivato a costare circa 85 centesimi, oggi ne costa 50, ma i problemi rimangono. “In porto si respira aria strana. Per un periodo alcuni armatori hanno messo in vendita le loro barche, poi non essendoci mercato, hanno scelto la via della demolizione”.

    Demolire è meglio che curare
    Questa è una strada che non tutti percorrono felicemente, perché comporta la cessione allo Stato della licenza di pesca. In pratica lo Stato paga una somma, circa 8mila euro a tonnellata, per dismettere l’attività. Attualmente sono 4 le barche che attendono la demolizione, tra le quali la Madonna di Siponto. L’imbarcazione del marito della signora Rosina, che ha tenuto il banco del pesce al Mercato Coperto di Rimini, per ben 22 anni. “Ho dovuto lasciare a settembre. Mi è dispiaciuto molto. Ancora oggi i miei clienti mi cercano e chiamano a casa. Ho mollato tutto per motivi di salute, ma prima o poi avrei dovuto chiudere lo stesso. La demolizione della nostra barca e la crisi generale, tutto remava contro”. Rosina dice che attualmente sono 4 o 5 i banchi in vendita. Un mercato ben visto dalla comunità cinese, che si appresta a subentrare nelle attività, per lo meno stando alle voci dei corridoi del Mercato Coperto.

    La memoria storica
    Una crisi che investe ogni punto della filiera, quindi. Francesco Cappello, uno tra i primi pescatori e armatore lampedusano, a Rimini dal 1955 ci spiega le sue ragioni: “Tutto è cambiato da allora. Intanto la quantità delle barche è aumentata e l’Adriatico che non è un mare immenso è diventato troppo piccolo per tutti. Poi nel tempo è calata la qualità delle specie. Di anno in anno si pescano sempre meno le rarità come i rombi o i gamberi”. Solleva un’altra questione Cappello, quella del personale: “ormai le flotte sono composte quasi interamente da tunisini. Mancano le giovani leve lampedusane. Il boom che io ho visto nei primi anni in cui sono stato qui, non si è più verificato. Questa è una perdita per tutti”.

    A monte della filiera…
    La recessione ha minato anche le fondamenta. Giovanni Gori, 63 anni, ha un cantiere navale in via sinistra del porto. La sua attività è in piedi dal 1972, costruisce e fa manutenzione d’imbarcazioni. “La crisi l’abbiamo avvertita anche noi. C’è stato un incremento esponenziale di tutte le componenti, dai motori all’elettronica. Faccio solo un esempio: abbiamo uno stampo per un’imbarcazione di 22 metri, vecchio di 4-5 anni. Se la prima barca che è uscita con questo stampo costava 800 milioni, ora costa quasi 800 mila euro. È normale che poi noi non vendiamo”. Un investimento così imponente, infatti, a fronte di una recessione economica incalzante e che spaventa, non interessa nessuno. Troppi i rischi imprenditoriali. Il cantiere di Giovanni realizza imbarcazioni nuove su commissione. In media ne costruiva 3 l’anno, impiegando 14 persone, lo scorso anno ne ha costruita una, quest’anno nessuna. Le 14 persone sono diventate 6 e il grosso dell’introito arriva dalle manutenzioni, soprattutto nel periodo di fermo pesca. Esiste un modo per uscire da tutto questo? “Difficile. Io mi ricordo che c’è stato un periodo in cui la Comunità Europea pagava il 40% a fondo perduto per le nuove attività. Ora gli incentivi li utilizza per demolire le barche. È un paradosso”.

    In stato di cattiva salute
    “Esiste un problema generale del settore della pesca e non solo a livello locale”. A dirlo è Massimo Coccia, presidente di Federcopesca che evidenzia un problema esterno al settore ma che lo influenza notevolmente. “A prescindere dal caro gasolio, esiste una contrazione dei consumi non indifferente. La domanda scende e come nel normale andamento della domanda e dell’offerta, il prezzo sale. Calano i consumi domestici, ma calano anche le richieste dei ristoratori. Evidentemente in tempi di crisi, con i redditi contratti, si taglia anche sulle cene fuori. Così come cala la richiesta di pesce da parte dei mercati non riminesi”. Insomma tutto fa brodo, in questo caso tutto fa crisi. In realtà Coccia avvicina una lente a un problema che sulle banchine del porto inquieta più di un pescatore, ossia un incremento esponenziale (negli ultimi 5 anni) di adempimenti burocratici, che arrivano dritti dritti da un pacchetto norme dell’Unione Europea. “Si è creata una situazione che in un settore stressato come quello della pesca crea dei danni. A parte il lavoro a carico dei pescatori, c’è poca chiarezza nella norma. E il fatto che ci siano diversi organi di controllo: dalla capitaneria di porto, alla guardia di finanza, alla marina militare, ai carabinieri genera confusione e discrezionalità, troppa”. Bolle sulla tracciabilità interpretate in modo diverso, libri a bordo da compilare volta per volta, specie per specie segnalando tutte le quantità di pescato. “I pescatori spesso mi dicono: «ci toccherà assumere un ragioniere da tenere a bordo». E come dargli torto? Per questo motivo gli interventi che stiamo portando in parlamento tendono alla semplificazione di tutta una serie di procedure”.

    Eccessi burocratici
    E di eccessiva burocrazia parla anche Walter Moretti, presidente della Cooperativa “Lavoratori del Mare” e non fa sconti a nessuno. “Stando a tutte le carte che si devono riempire, gli armatori dovrebbero imbarcare anche un ragioniere, un avvocato, un commercialista”. L’impressione di Moretti è che per quanto armate di “buona volontà” ci siano troppe leggi e troppo distaccate dal reale. Così come tanti sono i soggetti che possono andare e controllare. “Si crea una gran confusione, con il rischio che si inneschi un’umana competizione tra i controllori. A pagare però, sono sempre i lavoratori”.
    A proposito di controlli Moretti ci tiene a precisare una cosa: “Giusti sì. Però bisogna non trasformare queste azioni di controllo in azioni mediatiche e di spettacolo. La scelta degli orari, del numero delle persone e delle forze impiegate, del luogo e tanti piccoli accorgimenti potrebbero creare un clima diverso. Il rispetto e la sobrietà prima di tutto. Possibilmente senza aver chiamato a raccolta tutte le televisioni e i giornali locali. Il controllo alle vongolare che era su tutti i giornali la scorsa settimana poteva esser fatto di sabato mattina piuttosto che dopo una giornata di lavoro dura e faticosa. Gli animi sarebbero stati sicuramente diversi”. A buon intenditor poche parole.
    Nessun dubbio. C’è crisi.

    Angela De Rubeis