Home Attualita “Pensione Italia, qui non si lavora”

“Pensione Italia, qui non si lavora”

Greenville è una piccola cittadina della South Carolina. Piccola secondo gli standard americani, dato che comunque l’area urbana conta circa 300mila abitanti. Dalle foto si capisce subito il perché del nome: l’abitato è circondato a perdita d’occhio da boschi e vegetazione, e sullo sfondo si alzano, preceduti da una lunga teoria di colline, i monti Appalachi. Siamo sulla costa est degli Stati Uniti, più a sud di New York e poco distanti dalla Florida. È una città vivace Greenville, la seconda per dimensioni della South Carolina. Ci sono teatri, locali, cinema, e il sindaco, per stimolare la vita metropolitana, ha fatto realizzare una piazza in stile italiano, un luogo in cui la gente possa incontrarsi. Ma nonostante le intenzioni, i rapporti interpersonali sono difficili, parola di Luca Barattoni, residente di Greenville nato e cresciuto a Rimini.
Luca, ma è davvero così difficile tessere rapporti?
“Difficilissimo. Siamo nel sud degli Stati Uniti e qui la tendenza anglosassone di farsi i fatti propri, se possibile, è ancora più spiccata. Le persone lavorano, escono da casa la mattina, tornano la sera e poi ognuno per sé. I locali ci sono ma è difficile far nascere delle relazioni e delle amicizie dal nulla”.
E allora cosa spinge una persona legata ad uno stile di vita diverso a vivere qui?
“Il lavoro. La voglia e la possibilità di insegnare in un’università, quella di Clemson, che si trova a meno di 40 chilometri di distanza da Greenville. Il motivo per cui ho scelto di vivere qui e non a Clemson, è che Greenville è più vivibile come città, mentre a Clemson, a parte il lavoro, ci si sente un po’ fuori dal mondo, non esistono luoghi di incontro”.
Luca è Assistant professor di Italianistica e storia del cinema italiano e vive lo strappo che ha segnato e segna la maggior parte dei riminesi (e degli italiani, per valicare i confini di questa rubrica) nel mondo, e cioè la necessità di scegliere tra lavoro e qualità della vita. Finita l’università, ha capito che se voleva continuare a lavorare in campo accademico doveva lasciare l’Italia.
Giusto?
“Esattamente. Mi sono laureato nel 1996 in Lingue, a Bologna. Non sono andato subito in America ma ho lavorato un po’ in Italia, facendo diverse cose, anche part-time. In ambito sportivo ho giocato molto a basket, vincendo tre titoli sia a Rimini sia a Venezia con la Reyer, e poi ho fatto anche l’osservatore di nuovi talenti sempre per il basket. Ma alla fine la voglia di università ha preso il sopravvento. Un professore con cui ero rimasto in contatto mi ha portato a conoscenza di un master in media e comunicazione presso l’Università della North Carolina, la Unc at Chapel Hill. Nello stesso periodo, spinto dalla voglia di studiare e partire, avevo trovato un altro master a Pittsburgh, ma la Unc è un istituto molto prestigioso, per cui ho scelto senza indugi”.
Poi cosa è successo?
“Ho trascorso due anni in America dove ho concluso il master. La North Carolina ha un’università più vivace della sorella del sud. L’Ateneo è un crocevia di studiosi da tutto il mondo, e nonostante la distanza e lo spaesamento, non ci si sente poi così lontani da casa. Dopo il master, però, sono nuovamente tornato in Italia, a Rimini, e ho passato tre anni a lavorare come consulente aziendale. Questa ulteriore esperienza ha maturato ancora di più l’idea di rimanere in ambito accademico, per cui, alla fine, nel 2004 sono nuovamente ripartito per la Unc e ho conseguito il dottorato”.
L’esperienza di lavoro ti è stata in qualche modo utile? O la reputi tempo perso?
“No assolutamente, anche perché l’università americana risente molto delle logiche aziendali ed è necessario sapersi muovere tra le lezioni, gli studi e la capacità di trovare fondi e finanziamenti per i progetti. Acquisire delle competenze manageriali fa sicuramente bene, permette di essere meno fuori dal mondo, come capita a molti accademici”.
Ora sei stabile in Università. Questa è la tua ultima scelta o sei ancora indeciso sul tuo futuro?
“Se tutto continuerà così tra due anni non sarò più Assistant ma professore di ruolo, per cui attualmente la mia intenzione è quella di rimanere qui. Non nego che a fronte di una grande soddisfazione personale – studio, faccio ricerca e sto mandando in stampa il mio primo libro – soffro un po’ la mancanza dello stile di vita italiano. L’idea di uscire per strada e fermarsi a chiacchierare con le persone mi manca. La facilità con cui si intrattengono rapporti e si fa amicizia, la vita sociale in generale qui è davvero scarsa. La tendenza di chi vive da questa parti è quella di farsi una famiglia il prima possibile e poi dedicarsi a questa e al lavoro”.
Pensi un giorno di ritornare in Italia?
“Sono molto scettico sulla situazione del Paese. Penso che sia ormai stata confermata la tendenza di mantenere lo status quo, di non innovare, di lasciare tutto così com’è e soprattutto nelle mani di chi c’è da una vita. Vista da fuori, l’Italia è un luogo perfetto per fare le vacanze e per ritirarsi quando si ha finito di lavorare. Ma l’idea di scontrarsi con un sistema che privilegia la gerontocrazia rispetto ai giovani mi toglie la voglia di tornare. Almeno in questo momento. So di essere molto negativo e che i problemi non mancano anche nel resto del mondo. L’America è l’esatto contrario. Se l’Italia è il paese dei vecchi, gli USA lo sono dei giovani. L’America è molto dinamica, ci sono grandi possibilità, ma quando si finisce di lavorare si viene parcheggiati in un istituto o abbandonati e non c’è modo di essere utili a niente e a nessuno. Esistono dei veri e propri centri solo per anziani, in cui non è permesso l’ingresso a chi è minore di 50 anni, per non turbare gli ospiti. È un luogo strano, però le occasioni di lavoro non mancano, anche se in questi ultimi anni le maglie si sono strette e forse è più difficile per un non americano essere assunto”.
Pensi di diventare cittadino americano?
“Attualmente sono solo residente, però sì, penso a breve di chiedere la cittadinanza”.

Stefano Rossini