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Oltre il belcanto

Il soprano Roberta Mantegna (Luisa) e il baritono Amartuvshin Enkhbat (Miller) - Ph Fabrizio Sansoni
Il soprano Roberta Mantegna (Luisa) e il baritono Amartuvshin Enkhbat (Miller) - Ph Fabrizio Sansoni

Grande successo per l’allestimento di Luisa Miller all’Opera di Roma con autentiche ovazioni per il baritono Amartuvshin Enkhbat  

ROMA, 12 febbraio 2022 – Sulla base di una serie di luoghi comuni che ancora sopravvivono pure fra i melomani più avveduti, Luisa Miller viene erroneamente considerata uno degli ultimi tributi di Verdi alla retorica del belcanto. Una visione semplificatoria che porta ad assolvere – proprio in nome di una presunta superiorità canora – letture orchestrali fiacche e banalizzazioni registiche. In realtà quest’opera va ben oltre lo stereotipo del virtuosistico sfoggio vocale, se non altro perché nasce nel 1849 quando il compositore si era affrancato quasi completamente dai retaggi belcantistici. Non bisogna, invece, dimenticare che alle spalle del libretto di Cammarano c’è la tragedia di Schiller Kabale und Liebe (Amore e raggiro) in grado di fornire un materiale drammaturgico potentissimo e che Verdi sa gestire da par suo.

L’allestimento dell’Opera di Roma, dove in questi giorni Luisa Miller è ancora in scena, per fortuna non era focalizzato esclusivamente sulla valorizzazione delle imprese canore e presentava numerosi altri spunti d’interesse. A cominciare dallo spettacolo di Damiano Michieletto, riedizione di un suo vecchio lavoro nato nel 2010 a Zurigo. Il regista concepisce la tragica vicenda che porterà alla morte i due giovani innamorati come conseguenza dell’incomunicabilità tra figli e padri, anche se questi ultimi desiderano – seppure perseguendo strategie diverse – fortemente il loro bene.

Il mezzosoprano Daniela Barcellona (Federica) e il soprano Roberta Mantegna (Luisa)- Ph Fabrizio Sansoni
Daniela Barcellona (Federica) e Roberta Mantegna (Luisa)- Ph Fabrizio Sansoni

Per enfatizzare tale convinzione Michieletto utilizza in scena anche due bambini, che rappresentano il doppio di Luisa e Rodolfo, e spesso sarà proprio con loro che i due padri si relazionano: per i genitori, dunque, i figli non crescono mai, rimanendo cristallizzati in un’eterna infanzia, nonostante questo possa comportare conseguenze terribili. Con il regista, ancora una volta, collabora Paolo Fantin, che concepisce una scena astratta raddoppiata sia in verticale che in orizzontale: il mondo del Conte di Walter, in un caso, e quello più modesto del vecchio soldato Miller nell’altro. I costumi novecenteschi di Carla Teti contribuiscono poi a creare una cornice visiva senza tempo, mentre la parte centrale della scena ruota ininterrottamente: cambia così la prospettiva e, ogni volta, viene portato alla ribalta il personaggio di turno e il suo mondo.

Il cast era formato da cantanti di qualità musicale differente e per fortuna la regia non è intervenuta con troppe forzature nella definizione dei personaggi, fidandosi della musica e della bravura, talvolta ragguardevole, dei singoli. È il caso della protagonista, il soprano Roberta Mantegna, interprete verdiana oggi sempre più accreditata: intensa ed espressiva grazie a una morbida emissione e al fraseggio cangiante. Suo padre, il vecchio soldato Miller, era interpretato da un autentico fuoriclasse come il baritono Amartuvshin Enkhbat, massimo trionfatore della serata e accolto con ovazioni dal pubblico: mezzi notevoli, bel colore vocale, suono stabile e perfettamente controllato, dizione ottima, buon fraseggiatore. Nei panni di Rodolfo, l’innamorato di Luisa, il tenore Antonio Poli puntava soprattutto sulla gradevolezza della voce, anche se è apparso un po’ in affanno nei passaggi più spiccatamente drammatici. Il basso Michele Pertusi ha disegnato un malvagio e icastico Conte di Walter, suo inflessibile padre: un’interpretazione mai compromessa da qualche segno di logoramento vocale. Nonostante la sua classe, il mezzosoprano Daniela Barcellona nel ruolo di rivale della protagonista – era forse necessario un timbro più contraltile – non è sempre riuscita a rendere tutta la cattiveria della Duchessa Federica. L’anello più debole del cast era comunque il personaggio di Wurm, sia per i limiti vocali del basso Marco Spotti sia per intenzioni registiche abbastanza discutibili. Sarebbe bastato il canto a rendere sinistra e malvagia questa figura, senza bisogno di attribuire al perfido castellano contorni vagamente grotteschi, trasformandolo in un personaggio deforme: una sorta di Jago che occhieggia il dottor Stranamore. Da ricordare ancora il mezzosoprano Irene Savignano, incisiva nel piccolo ruolo della contadina Laura, e il contributo del coro ben preparato da Roberto Gabbiani.

A guidare l’orchestra era Michele Mariotti, al suo debutto come direttore musicale del Teatro dell’Opera: sempre molto attento alle esigenze dei cantanti, ma fin troppo cauto in una partitura dove bisognerebbe osare di più. Il rischio, altrimenti, può essere quello di una lettura ancillare rispetto alla vocalità, perdendo invece di vista l’orchestra come personaggio.

Giulia Vannoni