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Non bombardate Gaza nel nome di mia madre

Jonathan Zeigen holds a poster of his mother Canadian born peace-activist Vivian Silver, 74, believed to held hostage by Hamas in Gaza, on Monday November 6, 2023. The family has been notified that after five weeks that DNA has confirmed that Silver was murdered in her home on Kibbutz Be'eri by Hamas on October 7. Photo by Debbie Hill/ UPI

Dopo l’incontro all’Arena della Pace di Verona, intervista a Yonatan Zeigen, figlio della pacifista israeliana Vivian Silver, vittima dell’attacco di Hamas il 7 ottobre

Non è possibile distruggere Hamas, perché Hamas è un’idea” di “resistenza” e se non si cambiano “la mentalità” e “la realtà attorno a noi non importa quanti membri di Hamas potrai uccidere, perché se ne formeranno sempre di nuovi e in numero maggiore”. E continuando con “la logica dell’occupazione […] si tornerà sempre al 7 ottobre”. Così Yonatan Zeigen, figlio della pacifista israelo-canadese Vivian Silver, vittima dell’attacco che ha innescato la guerra di Israele a Gaza con il suo carico di morte e ulteriore violenza, analizza la spirale di violenza e terrore che sta insanguinando la Terra Santa.

Ad AsiaNews l’attivista, che ha raccolto il testimone della madre promuovendo un premio ispirato alla sua decennale opera [il “Vivian Silver Impact Award” che verrà assegnato ogni anno a una donna araba ed ebrea] a favore della pace e della convivenza, sottolinea come non vi sia “alcuna conseguenza positiva” nel conflitto. Uno scontro che si perpetra irrisolto anche per evidenti responsabilità della comunità internazionale, in primis di Stati Uniti ed Europa che devono smettere di “importare nei loro Paesi il nostro conflitto” ma devono iniziare “ad esportare soluzioni”.

Perché ha deciso di lanciare il “Vivian Silver Impact Award” e qual è l’eredità lasciata da una delle figure più autorevoli del pacifismo israeliano?

“Volevamo creare un qualcosa che avesse significato e andasse oltre la sua morte, continuando la sua testimonianza e l’eredità di operatrice di pace, di costruttrice di pace e condivisione nella società israeliana, oltre a valorizzare il ruolo della donna. Perché [alle donne] siano riservati sempre maggiori posti e ruoli che permettano di influenzare la società. Questo è ciò che lei ha fatto nel corso di tutta la sua vita e per noi è doveroso usare il suo nome e portare avanti il suo lavoro, incoraggiando altre donne a fare lo stesso e perseguire i suoi valori e ideali”.

Cosa significa oggi essere “pacifisti” in una terra dilaniata da conflitti e violenze?

“In Israele e Palestina siamo in una condizione di guerra prolungata da ormai oltre 100 anni. Sembra che abbiamo perso la capacità e l’abilità di usare mezzi e modi diversi in questo conflitto: la via della diplomazia, del dialogo. E che siano rimasti solo la forza militare e la violenza politica, ma non penso che tutto questo sia costruttivo. Quello che possiamo fare è cambiare il nostro modo di pensare e agire, capire che se l’interesse di Israele è la sicurezza e quello della Palestina è la libertà e uno Stato, la non-violenza è il solo modo per raggiungere l’obiettivo.

La forza militare, invece, è solo foriera di ulteriore violenza”.

Cosa ha significato per lei l’abbraccio fra Maoz Inon e Aziz Abu Sarah davanti a papa Francesco nel fine settimana scorso?

Due associazioni di donne, l’una israeliana Women Wage Peace (WWP nata nel 2014) – e una palestinese, Women of the Sun (WOS nata nel 2021) da molti anni operano insieme con azioni nonviolente: marce, veglie, progetti… Insieme hanno sottoscritto un appello per il cessate il fuoco immediato e per avviare negoziati per la pace con la partecipazione delle donne. Lo hanno presentato al Papa nell’incontro all’Arena della Pace a Verona. Sui loro siti è possibile conoscerle, ricevere notizie, sostenerle con donazioni, aderire al loro appello. FIRMA ANCHE TU!

“Significa tutto! Questo è un vero esempio, questo è ciò a cui aspiriamo noi – io, Maoz e Aziz – che lavoriamo per la pace. Non siamo speciali, siamo persone comuni e la prova che è possibile coesistere.

In questo senso è molto importante avere segnali di collaborazione fra israeliani e palestinesi perché i nostri fallimenti, i problemi, sono gli stessi per tutti. Le sconfitte sono comuni, un danno per tutti, così come sono a beneficio di tutti i successi, in un destino che è comune”.

Molto importanti, sempre nell’incontro di Verona, anche le parole del pontefice a sostegno del movimento Women Wage Peace… “Certo! Anche Women Wage Peace, nata nel 2014 [dopo la guerra a Gaza], è un altro esempio di organizzazione di persone che si sono unite – israeliane, cui si sono affiancate organizzazioni sorelle in Palestina – e che hanno levato la loro voce per affermare in modo chiaro che abbiamo bisogno di un cambiamento. Per iniziative di questo tipo è molto importante ricevere sostegno e legittimazione dal mondo esterno, specialmente da leader globali e personalità di primo piano come il papa, che esalta il lavoro e il messaggio di realtà come questa”.

All’indomani della risoluzione Onu lei ha affermato che il riconoscimento dello Stato palestinese non sarebbe un premio al terrorismo, ma una consolazione per voi figli delle vittime. Perché?

“Non siamo al cospetto di una guerra fra israeliani e palestinesi, ma ci troviamo di fronte a un conflitto fra persone che vogliono la vita e la pace e persone che vogliono morte, distruzione. Questo genere di persone sono presenti in entrambi i fronti. Per me uno Stato palestinese e ogni tipo di soluzione al conflitto sono un premio prima di tutto per me, non al terrorismo o alla violenza.

Vanno nella direzione della pace e della sicurezza. Anche perché non ci saranno mai libertà e sicurezza senza la pace e non ci sarà pace se continueremo con la logica dell’occupazione. Dobbiamo collaborare coi palestinesi per raggiungere una soluzione condivisibile e sostenibile”.

Dopo quasi otto mesi di guerra qual è il sentimento che prevale nella società israeliana: vendetta, volontà di pace, ira?

“La grande maggioranza degli israeliani sostiene la guerra perché la considera la sola strada per portare la sicurezza nel Paese. Ma questo è sbagliato. Se abbiamo solo l’opzione militare ogni problema sarà visto dalla prospettiva dell’uso della forza e saremo bloccati in una situazione di conflitto permanente, senza vedere alternative alla realtà, ma è sbagliato e controproducente, perché ci porterà a ulteriori violenze e perdite di vite umane”.

Cosa avrebbe detto sua madre, Vivian Silver, di fronte alla tragedia dei civili nella Striscia e cosa avrebbe fatto?

“Penso che sarebbe stata inorridita di fronte a tutto questo, le si sarebbe spezzato il cuore, ma credo avrebbe agito parlando, facendo pressione, quello che sto facendo io è quello che avrebbe fatto lei. Avrebbe gridato con forza “non a mio nome” la guerra a Gaza, la vendetta non è una strategia percorribile. Il 7 ottobre è la prova che abbiamo bisogno con maggiore forza della pace, non di ulteriori guerre e di uso della forza”.

Per la società israeliana è più importante il ritorno degli ostaggi o una ipotetica “vittoria” nella guerra contro Hamas?

“Non vi è alcuna conseguenza positiva dalla guerra e non possiamo ottenere una risposta positiva facendo ricorso a essa. Non è possibile distruggere Hamas, perché Hamas è un’idea. Esso è un’idea di resistenza e se non si cambia la mentalità, se non si cambia la realtà attorno a noi, non importa quanti membri di Hamas potrai uccidere perché se ne formeranno sempre di nuovi e in numero maggiore. Se si continua con la logica dell’occupazione e non si applica una visione politica saggia, si tornerà sempre al 6 ottobre e non è una bella posizione in cui stare, per nessuno”.

La guerra a Gaza, l’occupazione, il blocco nei colloqui di pace e una prospettiva di accordo sempre più lontana sono il fallimento della comunità internazionale?

“Ovvio! Il conflitto fra Israele e Palestina non è un qualcosa che possiamo mandare avanti da soli, ma è il mondo stesso che ha investito nello status quo. Una realtà di guerra e occupazione. Se vogliamo il cambiamento, se la stessa comunità internazionale vuole cambiare la realtà deve modificare il modo in cui opera nella regione. Non possiamo avere una comunità internazionale la quale afferma che la situazione non è positiva, ma continua a garantire e inviare denaro a Israele, a Unwra [Agenzia Onu per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente], questo è lo status quo e nulla cambia. Devono cambiate il paradigma, gli interessi, mostrare che si vuole lavorare per una soluzione e giungere a un accordo.

Tutto questo va fatto con un’alleanza internazionale, come il G7, anzi il “P7”: un’alleanza per la pace che lavora ad una soluzione.

Per concludere abbiamo bisogno che la comunità internazionale, che gli Stati Uniti e l’Europa in primis, la smettano di importare nei loro Paesi il nostro conflitto e inizino ad esportare soluzioni. Le manifestazioni a favore di Palestina o Israele a seconda degli schieramenti sono controproducenti, devono marciare assieme per la pace. Nessuno sarà libero senza una soluzione a questo conflitto!” .

Dario Salvi (AsiaNews)