ROSA PETRANGOLINI (1). È uno dei personaggi più importanti nello sviluppo del territorio della Valle del Conca, eppure rimane ancora sconosciuta per molti. La ricostruzione del contesto storico in cui è nata, cresciuta e ha operato
Abitati fin dall’antichità, Levola e Tavoleto sono collocati in due differenti ambienti fisici, in una conca la prima, su un colle il secondo.
Entrambi erano stati domini dei Malatesta fino a metà del XV secolo quando, mentre Levola rimase legata ai possessi malatestiani, Tavoleto fu conquistato da Federico da Montefeltro che fece abbattere il precedente castello per erigerne uno nuovo, progettato dal suo architetto Francesco di Giorgio Martini al pari di quello di Sassofeltrio, nella valle del Conca, diventati i contraltari delle altrettanto poderose strutture militari malatestiane di Montefiore e Montescudo.
Da allora i due luoghi che qui consideriamo ebbero differenti sviluppi, scarso a Levola come in tutti i villaggi periferici a vocazione esclusivamente agricola, più consistente a Tavoleto, diventato castello cioè centro amministrativo e difensivo del territorio, borgo vivace posto a presidio di una importante via di comunicazione. Una condizione che però nei secoli venne scemando per la perdita della sua funzione militare e la progressiva marginalità della strada interna tra Rimini e Urbino (questa via di comunicazione continuò ad avere una discreta importanza fino alla seconda guerra mondiale; tuttora il collegamento tra Riccione e la vallata interna del Conca è chiamato via Tavoleto e lo è dalla sua ristrutturazione nei primi anni dopo la Grande Guerra, quando era denominata “strada consortile interprovinciale”).
Il periodo che qui interessa va dall’unità nazionale agli anni Venti del secolo scorso.
Secondo i dati del Rosetti, nel 1894 Tavoleto aveva 1.091 abitanti (621 nel capoluogo) e un territorio di 1.216 ettari; a Levola, frazione di Montefiore, abitavano 302 persone (E. ROSETTI, La Romagna. Geografia e storia, Hoepli, Milano 1894; ristampa anastatica a cura di S. PIVATO, University Press Bologna, 1995; passim). Nel primo ventennio del Novecento il comune tavoletano arrivò a superare di poco i 1.300 residenti, mostrando una capacità di crescita piuttosto modesta, condivisa con la maggior parte dei centri collinari delle due vallate parallele del Foglia e del Conca che nello stesso lasso di tempo si andarono progressivamente spopolando a vantaggio dei fondovalle, una decrescita non contrastata da una economia agricola sempre più povera.
Per Tavoleto non disponiamo dei risultati dell’Inchiesta Jacini del 1877, ma possiamo utilizzare quelli dei vicini comuni romagnoli per avere un quadro sulle condizioni di vita nelle campagne dell’alta valle a ridosso del confine marchigiano.
A Montefiore, Gemmano e Mondaino le fertilità dei suoli erano giudicate mediocri, solo a Saludecio era migliore, ma perché questo comune aveva porzioni di territorio meno collinari e più fertili dei precedenti; si producevano soprattutto cereali e vino, poco mais che pure era la base quasi esclusiva dell’alimentazione per i tanti poveri presenti; la maggior parte delle case versava in condizioni pessime e con scarsissima igiene, senza latrine, acquedotti, fognature; quasi assente l’assistenza sanitaria, a fronte di malattie endemiche come la pellagra; alto l’analfabetismo e il lavoro minorile; in genere mancavano sostegni ai bisognosi, poche le opere pie, a fronte di tanta usura che non veniva contrastata né dalle istituzioni pubbliche né da istituti di credito, praticamente assenti salvo qualche caso di piccolo credito e tentativi di creazioni di società di mutuo soccorso (per i dati dell’inchiesta relativi al circondario riminese si veda il volume C. CATOLFI, L’Inchiesta Jacini in Romagna. I materiali inediti del Riminese, Maggioli, Rimini 1990; le risposte ai questionari riprodotte sono in ordine alfabetico per singoli comuni).
In tutto questo territorio la forma di conduzione agricola principale era la mezzadria, accanto alla quale vi era una discreta presenza di proprietà condotta direttamente, in entrambi i casi le dimensioni poderali erano piuttosto ridotte. In condizione mista erano i beni terrieri di Luigi Michelini, il padre di Rosa e della sorella minore Teresa, possidente di quattro poderi condotti in parte con mezzadri e in parte con l’attività propria e della famiglia. Essendo Luigi vedovo, Rosa era di fatto l’azdora della casa, nelle testimonianze ricordata come donna energica e decisa (le testimonianze orali su Rosa Michelini sono in: E. CAVALLI, La Rumagnola. La Rosa di Levola, La Piazza, Misano 2008).
Rosa nacque nel 1837, si sposò una prima volta nel 1867 a trent’anni, quindi in età avanzata per il tempo, con il tavoletano Francesco Falaschi, vedovo, senza figli e di età avanzata (era nato nel 1807); due anni dopo nacque una figlia, Giuseppina, che morì molto presto, nel 1870, lo stesso anno del padre.
Rimasta vedova, Rosa si ritrovò ereditiera di ingenti proprietà: oltre ai poderi e la casa del padre a Levola, aveva acquisito terreni a Tavoleto Casinina Auditore e nel riminese, e ancora il palazzo di famiglia a Tavoleto e uno a Rimini che Falaschi aveva a sua volta ereditato dai genitori, in particolare dalla madre, della famiglia riminese Gioja. Nei pochi testi locali che parlano di lei viene indicata una proprietà di 100 poderi, probabilmente una cifra più simbolica che reale anche se effettivamente i possessi terrieri erano tanti, distribuiti in una vasta area che andava dal fondovalle del Foglia ai comuni collinari romagnoli prima citati e fino alle campagne riminesi.
Queste ingenti proprietà terriere avevano capacità produttive diverse, sicuramente più alte quelle nella pianura riminese, meno nei terreni attorno a Tavoleto: a inizio Novecento, infatti, le colline tra Marche e Romagna avevano un’agricoltura poco redditizia, basata su una scarsa produzione di cereali e una diffusa presenza di pascolo e prato a disposizione di una minima zootecnia per il consumo quasi esclusivamente familiare. Nel 1921, ad esempio, il valore della produzione lorda per ettaro nelle basse colline del Foglia era valutata in £. 227, di poco superiore a quella media della montagna pesarese, attestata sulle 205 lire, e circa la metà delle 432 lire registrate nel fondovalle dello stesso fiume (i dati sull’agricoltura di inizio Novecento sono in: AA.VV., La provincia di Pesaro e Urbino nel Novecento, 2 tomi, Marsiglio, Venezia 2003). (1-continua)
Maurizio Casadei

