Christo – nome impegnativo per un artista di land art, origine bulgara, l’artista divenuto notissimo per aver “impacchettato” il Reichstag di Berlino – e Paolo Fabbri, semiologo di fama altrettanto internazionale, più conosciuto all’estero che in Italia – si sono spenti a distanza di poche ore l’uno dall’altro, uno a 84 l’altro a 81 anni, entrambi maestri di “segni” e di sogni. Con queste due vite, davvero fuori del comune, ho avuto l’avventura e l’onore di intrecciare parte della mia.
Non credo si siano mai conosciuti personalmente, i due, ma Paolo aveva una predilezione per gli artisti contemporanei, da Boltanski a Pistoletto, da Mimmo Rotella a Butor, Adami, fino a Bill Viola la cui installazione gli aveva ispirato una dedica alla figlia Alessandra, morta di tumore, che oggi appare profetica anche per lui: “I morti non sono morti e non stanno in un distante Altrove; ci sono prossimi, ma abitano il diafano”.
Di fronte all’arte, scriveva, bisogna alzarsi sulla punta della propria ignoranza, per lasciar emergere quello che a prima vista non si vede, fino a scoprire la trascendenza! Ma Christo – forse troppo “popolare” e marketizzato per piacere a Paolo, ma non ne abbiamo stranamente mai parlato – era tutt’uno con la moglie, Jeanne-Claude Denat de Guillebon, un vero “doppio”: nati lo stesso giorno, lei a Casablanca, laureata a Tunisi, risposata a Parigi, morta nel 2009 negli Stati Uniti, entrambi di una sregolatezza e di una audacia creativa impressionanti. Con entrambi di loro avemmo a che fare mia moglie ed io per un anno intero quando cercammo di montare quello che avrebbe dovuto (e potuto) essere il clou della loro carriera artistica: l’impacchettamento della Repubblica di San Marino! L’idea ci era venuta in occasione dei festeggiamenti dedicati a Fellini per il lancio di E la nave va e dopo aver assistito in prima persona all’impacchettamento di Pont Neuf a Parigi, cinque anni prima che Paolo vi giungesse in veste di Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura. Il progetto prevedeva che, dopo l’impacchettamento del monte, un potente raggio laser vi sparasse sopra una specie di etichetta per la “spedizione” dell’Antica Repubblica al mondo intero. Il progetto non sarebbe costato una lira a San Marino, così come per il “miracolo” delle passerelle flottanti del 2016 sul Lago d’Iseo: 130 milioni a carico di Christo per due sole settimane di vita! Uno scandalo! Ma lo scandalo vero fu la miopia dei commercianti sammarinesi che avrebbero perso ben due settimane di vendite in sigarette, balestre e finte armi da guerra.
Di soli due anni più vecchio di me (ma sembrava dieci anni più giovane!) Paolo era a sua volta un “irregolare” fin dalla sua prima precocissima, leggendaria storia d’amore adolescenziale con quella che sarebbe diventata la sua prima moglie. Garbugli matrimoniali e affettivi che hanno accompagnato la vita di entrambi sembrano aver caratterizzato tutta quella generazione geniale e irrequieta!
Ricordo un viaggio a New York dove ci aspettava Umberto Eco con Piero Meldini, Paolo e la sua seconda compagna. Le discussioni infinite, le risse addirittura, le incursioni nei locali dell’avanguardia musicale dove suonava Woody Allen, l’eccitazione, l’elettricità culturale che si respirava.
Il susseguirsi dei traumi affettivi che avrebbero segnato Fabbri (dalla morte della figlia Alessandra per cancro fino all’incidente che costrinse l’altra figlia, Giovanna, su una sedia a rotelle) e lo stesso Christo erano ancora lontani. Per entrambi la cifra distintiva è stata in qualche modo quella dell’eccesso: un eccesso di creatività e di intelligenza, una condanna biblica.
Delle caratteristiche intellettuali di Paolo Fabbri, della sua vocazione didattica, del fascino irresistibile delle sue conferenze, della novità della sua ricerca semiologica hanno scritto in tanti. La sua capacità di raccontare, l’acume del suo smontare testi, fotografie, fumetti, film, capi
d’abbigliamento, manifesti pubblicitari come veri, “Segni del tempo” (voi che sapete dire rosso di sera, eccetera, ricordate…?) lasciavano a bocca aperta persino chi lo conosceva meglio. I miei figli si divertivano da pazzi, quando veniva a cena, per la feroce ironia con cui commentava i film che a volte proponeva loro di vedere assieme. Il libro dei sogni di Fellini in versione digitale e-book, che abbiamo firmato assieme, rimane uno dei pilastri del nostro sodalizio: le nostre rispettive “intuizioni” nell’accostarci a quel testo che ritenevamo “bistrattato”, si incastravano perfettamente e diventavano al tempo stesso un balsamo per l’antica ferita che ci aveva separati per un tratto di strada ai tempi de La mia Rimini.
Molto prima che mio autore, Paolo è stato un amico a cui ho voluto molto bene. Aveva un modo di dire, Paolo, un vezzo interlocutorio che ancora mi risuona nelle orecchie: “… non è grave!”, diceva, come per prendere le distanze dal dolore, o dalla rabbia, o dalla stupidità altrui. Come tutti, anche io avevo per lui una ammirazione stupefatta, quasi succube. Al punto che dovevo quasi difendermene, ricordando a me stesso le parole di S. Paolo ai Corinzi (“Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo?
Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo?”) o la preghiera di Gesù (“Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”). Ma in questo mio ipocrita mettermi dalla parte dei piccoli e degli stupidi c’era di sicuro più orgoglio e presunzione di quanta ne avesse Paolo, a cui il “rischio” della propria intelligenza e del potersi disperdere “nei pensieri del proprio cuore” non sfuggiva affatto. Il colmo della sua paradossale umiltà, raffinata nella sofferenza della malattia accanto alla sua adorata Simonetta, è stato proprio l’accettazione – quasi per entrambi! – del tardivo Sigismondo d’oro. Con una arguzia da brivido disse alla cerimonia di consegna: “Grazie Sindaco, perché prima, qui a Rimini, ero solo il figlio della Tina, poi il fratello di Gianni, adesso finalmente so di avere anch’io un nome, Paolo Fabbri!”. Luigi Tenco, nella struggente, bellissima canzone del 1966 che preludeva al suo suicidio appena un anno più tardi, cantava la vita che se ne va: “E gli occhi intorno cercano/ quell’avvenire che avevano sognato. / Ma i sogni sono ancora sogni/ e l’avvenire è ormai quasi passato”. Proprio cosi. Le generazioni se ne vanno a ondate successive, risacche di vite che hanno giocato la loro partita e si spengono a riva dell’Infinito con un leggero gorgoglìo.
Mario Guaraldi