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Missione: bella e impossibile?

1. Evangelizzare si può?
Evangelizzare si deve: dopo il cammino percorso negli anni passati, in preparazione alla Missione straordinaria, non credo che ci siano più dubbi al riguardo. Ma resta la domanda: evangelizzare si può? In questa lettera pastorale, vorrei provare a dare una risposta attendibile e rasserenante, che anticipo subito: sì, evangelizzare si può! Un primo assist di conferma e di stimolo ce lo passa il vangelo di san Marco 6,7-13, proclamato nella 14.ma domenica del Tempo Ordinario (Anno B), quando ho cominciato a stendere questa lettera:
(Gesù) 7chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. 8E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né bisaccia, né denaro nella cintura; 9ma di calzare sandali e di non indossare due tuniche. 10E diceva loro: “Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. 11Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro”. 12Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, 13scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano”.
Sì, si può evangelizzare, perché Gesù non si è ancora stancato di noi: non ha ancora finito di chiamarci alla missione. Ecco il primo segno di riconoscimento nella carta di identità di noi cristiani: siamo i chiamati da Gesù (v. 7). C’è sempre lui all’inizio dell’evangelizzazione; e l’abbrivio dell’avventura cristiana ha ancora quel nome esaltante, promettente e sempre intrigante: vocazione. Chiamati, dunque, perché amati, ma per fare cosa? L’evangelista lo aveva già detto, in modo scarno ma efficace: “per stare con lui e per mandarli (i discepoli) a predicare” (Marco 3,14). Stare con Gesù, entrare in intima comunione di vita con lui, accogliere affettuosamente la sua parola, fare comunità: sono i momenti qualificanti e decisivi per diventare discepoli, per formarsi alla sequela del più grande Missionario. Dopo, solo dopo viene l’azione, il servizio, la missione: “e per mandarli a predicare”.
E i discepoli partono, ma a due a due (v. 7). Non a uno a uno. Non a caso o alla rinfusa. Non per abbinamenti formati spontaneamente dai Dodici, a loro gusto e piacimento. Questo è il primo annuncio: un messaggio non tanto proclamato a parole, quanto piuttosto trasmesso con l’eloquenza di quel camminare insieme, verso la stessa meta, con gli stessi atteggiamenti, con lo stesso equipaggiamento: povero, umile, disarmato, per andare liberi e forti come i non-violenti, per correre lieti e lievi come gli innamorati. La missione non è opera di navigatori isolati, di pionieri solitari, di messaggeri sparpagliati. Perché dove i due sono uniti nel suo nome, là è lo stesso primo Missionario a farsi presente e operante in mezzo ai suoi. Ma ci crediamo che è veramente risorto? E che dunque è vivente? E che dunque è in stato di instancabile effusione del suo Spirito?

2. Non portare nulla per la missione
Per il viaggio in missione non si deve portare via nulla. Proprio nulla: né pane, né borsa, né soldi. Ma allora si può o non si può – si deve o non si deve – organizzare la missione? Per noi, gente del terzo Millennio, alla base di ogni strategia di riuscita c’è l’organizzazione. Tutto oggi è pubblicizzato come risultato automatico, come effetto garantito da cause necessarie e sufficienti. Tutto viene spacciato come esito immancabile di programmazioni puntigliosamente definite. Così si organizza il mercato. Così si scala il successo. Si conquista la ricchezza. Si raggiunge il potere. Così si allestisce il grande spettacolo dell’esistenza. Si orchestra il gioco dei rapporti interpersonali, si intreccia persino la trama e l’ordito degli affetti più cari. No, la missione è altra cosa: rompe gli schemi prefabbricati, dà scacco alle ideologie più sofisticate, ignora i conteggi dei calcolatori più esperti. Il vangelo è una notizia strabiliante: un messaggio di luce e di misericordia, un dono di vita nuova, traboccante e sempre sorprendente. L’impresa più strepitosa – quella di portare il regno di Dio sulla terra – è partita così, e così ha invaso il mondo e la storia. E – c’è da giurare – non si fermerà mai più…
In missione si va poveri di tutto, ricchi solo del vangelo. E con una attrezzatura ultraleggera: una sola tunica, un bastone e appena due sandali. Basta e avanza. E’ vero: un minimo di organizzazione ci vorrà pure, ma è e deve essere cosa da poco. E’ e deve rimanere strumentazione agile e sciolta. L’unico tesoro è e deve rimanere il vangelo: l’incredibile messaggio che la grande paura è finita. Che la salvezza dal catastrofico naufragio è a portata di mano. Che l’amore è possibile, la via della pace è praticabile, perché siamo stati, siamo e saremo sempre immeritatamente, eppure immensamente amati. Ma quanto al “risultato” della missione, nessuno mai potrà tirare i conti. Nessun missionario potrà pretendere un ritorno su misura dell’impegno investito, della fatica sudata, dello zelo profuso. Nel campo di Dio vige sempre la legge della “sproporzione”: più gli annunciatori si faranno piccoli e umili, più l’annuncio risulterà imprevedibilmente ricco e fecondo. Più i servi si sentiranno “inutili”, più risulteranno efficaci, e più esuberante sarà il raccolto. Insomma la misura del risultato sarà infinitamente “s-misurata”, letteralmente “senza misura”: risulterà enorme, incalcolabile, ogni volta che il cuore ferito anche di una singola persona si aprirà all’infinito amore di Dio. Per il missionario non ci sarà perciò mai spazio né per gonfiarsi di compiacimento per un successo appariscente né per deprimersi dinanzi a un altrettanto appariscente insuccesso, magari incassato nonostante gli sforzi tenacemente spesi o le risorse generosamente impegnate.

3. No a una pastorale da infarto
Ora riprendo la domanda di fondo: evangelizzare si può? Un altro assist per una risposta persuasiva e sostenibile mi è venuto dal vangelo della domenica successiva, la 16.ma del Tempo Ordinario (B) in cui è stato proclamato il brano di Marco 6,30-34:
30Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. 31Ed egli disse loro: “Venite in disparte e riposatevi un po’”. Erano infatti molti che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. 32Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. 33Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. 34Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
Questo vangelo accende alcune “luci di posizione” per definire il ritmo giusto della missione. Lo sperimentiamo sempre più spesso: oggi la nostra pastorale rischia l’infarto. Si corre, si corre a perdifiato: per fare funerali, per organizzare feste, per collezionare in serie corsi e percorsi, riunioni e convegni, attività e iniziative varie. E anche le “cose” più importanti hanno il fiato corto: patiscono ansia e affanno, producono stress e angoscia sfibrante. La stessa missione, in tutta la sua nobiltà, può cedere al rischio di degenerare in propaganda o di scadere ad asfissiante pubblicità. “Senza la contemplazione” – scriveva Jacques Maritain – ogni zelo, anche buono, volge verso la rivalità”. Il correre spinge a competere. E il competere costringe a confliggere. E poi?
A questo punto vale la pena dare uno sguardo al ritmo della giornata di Gesù e dei suoi discepoli, al rientro dalla missione.
Al centro del brano evangelico vediamo muoversi una fiumana straripante. Gente che va e che viene; che accorre da vicino, arriva da lontano, tracima “da tutte le città” (v. 33). Gesù appare sotto attacco: quella “grande folla” lo cerca, lo bracca, gli toglie il respiro e gli prosciuga persino “il tempo di mangiare” (vv. 34.31). Il ministero del Maestro e dei discepoli ha un ritmo mozzafiato. Ma Gesù non si lascia travolgere dalla gente. Mai. Né quando lo segue per ascoltarne la parola, né quando lo insegue per proclamarlo re (Giovanni 6,15). Gesù sa proteggere il tesoro dell’anima: la sua sovrana libertà. E spesso spezza il ritmo vorticoso dell’azione, pur buona, per ritrovare il cuore dell’essenziale: il suo colloquio intimo con il Padre.
Per lui sono due i punti da salvare a ogni costo, nel ritmo convulso della missione: per i Dodici, il giusto riposo; per la folla, il pane della parola. Perché per il Maestro le persone vengono prima dei piani pastorali, dei programmi e degli organigrammi. E prima delle iniziative, attività e varie azioni vengono le relazioni. Ai risultati da perseguire fino allo sfinimento non si può sacrificare né la gioia del cuore né un sano, sereno riposo del corpo. A Gesù, più del tuo fare, sta a cuore il tuo essere, il tuo vero ben-essere. Il rabbi di Nazaret non impone ai Dodici, spremuti e sfiniti, di precipitarsi a curare i malati che stanno facendo la fila. Non pretende da loro di intraprendere un pellegrinaggio di ringraziamento al tempio. Né comanda di rimettersi subito in marcia per una nuova missione. Anzi il Maestro offre una pausa alla fatica dei suoi: li accoglie affettuosamente al rientro da un tirocinio sfiancante, li ascolta con vivo interesse mentre si stringono attorno a lui per riferire “tutto quello che avevano fatto e insegnato” (v. 30). La missione ha bisogno di essere raccontata e verificata. E forse in questo incontro a cuore libero, tra Maestro e discepoli si intrecciano i sentimenti più diversi: dalla gioia irrefrenabile per il successo conseguito, alla delusione cocente per gli smacchi subiti e per gli scacchi registrati. I discepoli devono imparare la lezione: non puntare sul successo, ma tendere e attendere la fecondità, che è grazia, dono da invocare e da accogliere.
Il giusto ritmo della missione prevede il respiro del silenzio, richiede l’ossigeno della contemplazione. Bisogna imparare dal primo Missionario: nella solitudine Gesù vive il massimo di unità con il Padre suo e con i suoi. Per lui il ministero prima di essere missione è comunione; prima di essere azione è adorazione; prima di essere sforzo, impegno e fatica è contemplazione. Solo dopo la pausa del riposo, Gesù si lascia “mangiare” dalla folla. Anzi sembra proprio che il riposo, faticosamente sottratto all’assedio della calca, sia la condizione per una nuova immersione tra la gente, per una missione più feconda, perché traboccante di “con-passione”. Gesù infatti “si con-mosse perché erano come pecore che non hanno pastore”.

4. E’ missione, non un affare aziendale
L’azione pastorale delle nostre comunità sembra spesso dimenticare due certezze mai smentite: la prima, che non siamo noi a salvare il mondo. Del resto le nostre vite sono pur sempre fragili; le risorse disponibili sono per lo più precarie, le nostre energie non sono inesauribili. La seconda verità – ci ricorda sant’Ignazio – è che occorre agire come se tutto dipendesse da noi, e quindi con grinta e passione, ma anche con leggerezza e fiducia, come se tutto dipendesse da Dio. E sant’Ambrogio scriveva: “Se vuoi fare bene tutte le tue cose, ogni tanto smetti di farle”, cioè stacca, riposati e stai sereno. La tentazione è ricorrente: occorre vigilare per non cedere alla logica dell’urgente, perché allora si finisce per trascurare l’importante. La seduzione diabolica è di indulgere alla tattica, frenetica ma sterile, dell’efficienza mondana, più che di abbracciare la strategia dell’efficacia evangelica. Si lavora, si corre qua e là, ci si lascia prendere dall’ingranaggio delle “opere”, e inesorabilmente si cade nello “stress da pastorale”. E anziché ardere, si finisce per bruciarsi. Si dimenticano le persone; e, risultato ancora più grave, si accantona Dio, per stare lì a leccarsi le piaghe prodotte dalla frustrazione di aver faticato invano. Abbiamo dimenticato il testamento di san Giovanni della Croce? “Giova più alla Chiesa un solo atto d’amore che non tutte le sue opere messe insieme”.
Forse c’è da recuperare lo spazio dell’inutile per riguadagnare l’essenziale. Quell’inutile che si chiama silenzio, per ritrovare se stessi. Si chiama preghiera, per incontrare Dio. Si chiama interiorità, per sorseggiare, con pace e gusto spirituale, l’acqua viva della Parola. Chi ci guadagna allora non è solo la vita spirituale, ma ogni attività pastorale. Ma ci guadagna pure la nostra precaria, inadeguata umanità.
Ora mi vado a rileggere le parole illuminate di papa Francesco: le riprendo dal libretto che ho più consumato in questi ultimi due anni, la sua Gioia del Vangelo:
La missione non è un affare o un progetto aziendale, non è neppure un’organizzazione umanitaria, non è uno spettacolo per contare quanta gente vi ha partecipato grazie alla nostra propaganda; è qualcosa di molto più profondo che sfugge ad ogni misura. Forse il Signore si avvale del nostro impegno per riversare benedizioni in un altro luogo del mondo dove non andremo mai. Lo Spirito Santo opera come vuole, quando vuole e dove vuole; noi ci spendiamo con dedizione ma senza pretendere di vedere risultati appariscenti. Sappiamo soltanto che il dono di noi stessi è necessario. Impariamo a riposare nella tenerezza delle braccia del Padre in mezzo alla nostra dedizione creativa e generosa. Andiamo avanti, mettiamocela tutta, ma lasciamo che sia Lui a rendere fecondi i nostri sforzi come pare a Lui” (EG 279).

+ Francesco Lambiasi