A pochi giorni dalla ricorrenza del primo maggio, l’Italia del lavoro si presenta ancora divisa e sempre più incerta. L’irrisolto divario tra nord e sud, la scarsa diffusione della cultura d’impresa, la distanza tra sistema formativo e mondo del lavoro sono solo alcune delle cause della grave situazione che stiamo vivendo. Globalizzazione, sfide tecnologiche e frammentazione dei legami sociali hanno radicalmente mutato – anche nel nostro Paese – le condizioni, le modalità e le prospettive del lavoro. Non il suo senso però, il suo rappresentare per l’uomo una possibilità per il suo sviluppo ed elemento stesso della sua dignità. Sebbene in modo diverso rispetto al passato, e spesso in un clima di generale assuefazione rispetto al contesto socioeconomico dei nostri tempi, la conflittualità insita nel lavoro si traduce in nuovi fenomeni di esclusione che rappresentano la conseguenza di una società sempre più complessa ed interconnessa e, nello stesso tempo, più individualistica ed egoistica, in cui tutto si lega e si intreccia in un groviglio di interessi e di particolarismi che, alla fine, genera disuguaglianze crescenti e povertà materiali e spirituali.
Proseguendo la riflessione sul lavoro avviata nel corso delle ultime “Settimane sociali dei cattolici” di Cagliari, il messaggio dei vescovi italiani per la Giornata del lavoro ha indicato tre priorità.
La prima è quella di rimuovere gli ostacoli nei confronti di coloro che il lavoro lo creano.
La seconda è quella dell’evoluzione del nostro sistema formativo verso un modello più orientato alle esigenze del mondo produttivo e del lavoro. Accanto alla formazione universitaria abbiamo necessità di sviluppare un sistema di formazione universitario-professionale capace di rappresentare per i giovani una valida alternativa all’Università tradizionale e, per le imprese, il bacino principale per la ricerca dei futuri quadri aziendali.
La terza è quella della creazione di una rete di protezione per i soggetti più deboli, uno strumento di reinserimento e di recupero della dignità perduta da coloro che restano fuori dal mondo del lavoro e desiderano reinserirsi.
Un simile intervento – che si chiami reddito di inclusione o di cittadinanza, pensioni o assegni sociali, poco importa – dovrà comunque inquadrarsi in un piano che garantisca la tenuta dei conti pubblici e indirizzi la spesa sociale a supporto di specifici interventi di rilancio o di riconversione di imprese, garantendo effettive possibilità di creazione di nuova occupazione.
Fabio G. Angelini