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Ma la famiglia non è un affare privato

“Non è facile parlare di famiglia”. Così ha esordito il professor Luca Diotallevi, docente di sociologia all’università Roma 3 e relatore delle conclusioni alla Settimana Sociale dei Cattolici Italiani dedicata alla famiglia, che venerdì scorso ha preso parte all’incontro dal titolo ”La famiglia non è un affare privato” presso la parrocchia di San Gaudenzo. Non è facile perché se non vuole essere un parlare vuoto o strumentale, occorre prendere coscienza delle responsabilità reali della famiglia e della nostalgia del passato che essa evoca.
Eppure parlare di famiglia oggi è necessario: di fronte a un Paese, il nostro, che vive una crisi gravissima delle istituzioni economiche, industriali, scolastiche, famigliari, dobbiamo farci domande serie e profonde.
Occorre prima di tutto avere una visione realistica, in cui la famiglia ha le sue responsabilità. Ne è un esempio il ruolo sociale delle donne soffocato per anni in nome della famiglia, al punto da scoraggiare da qualsivoglia legame stabile quelle donne che hanno avuto il coraggio di affermare i propri diritti in una fase storica non tanto lontana.
Ciononostante, parlare di famiglia evoca una certa nostalgia del passato, trasmette istintivamente un senso di ordine perché rimanda a una visione aristotelica della famiglia dove lo stato è governato dal monarca e si regge su una gerarchia di famiglie incentrate sul capofamiglia, idea peraltro sostenuta con forza da tutte le dittature.

Se vogliamo parlare di famiglia secondo il Vangelo – spiega Diotallevi –dobbiamo prendere le distanze da questo modello e concentrarci sulla famiglia fondata sul matrimonio” rispetto alla quale l’idea di una famiglia con i giovani inglobati fino a età da definirsi è un fraintendimento: l’inizio della famiglia presuppone la fine di altre famiglie perché essa è una struttura a tempo la cui efficacia educativa si dimostra proprio con l’uscita dei figli per creare nuove famiglie.
La specialità del matrimonio è sottolineata dal fatto che è l’unico sacramento in cui ministro non è il prete ma gli sposi, che Gesù non istituisce ma eleva e purifica. L’amore tra gli sposi viene riconosciuto come segno di eternità da un sacramento che ha il potere di scardinare ogni struttura perché un gesto ordinario della vita dei fedeli ha significato di sacramento. Così la famiglia fondata sul matrimonio esprime la specialità dell’amore tra un uomo e una donna, da cui nascono dei doveri, nei confronti dei figli in primis.
La famiglia non è il centro o il modello della società tanto che la Chiesa propone il modello celibatario e non tutte le strutture sociali possono essere famiglia (partito, scuola, associazione sportiva, etc…): la famiglia ha una funzione limitata ma cruciale nella varietà del sociale, nell’affermare il principio della sussidiarietà per cui può offrire elementi importanti per una società civile più sana.

Alla luce di queste considerazioni è facilmente comprensibile come le conclusioni tratte a Torino mirino ad affermare il ruolo pubblico della famiglia, il principio di sussidiarietà e la libertà formativa.
Primo assunto è che la famiglia non è una questione solo privata, ma è in grado di mutare l’equilibrio pubblico perché parte della struttura della Repubblica e lo si conviene credendo e non credendo.
La seconda conclusione è una richiesta di liberazione della famiglia in nome della sussidiarietà<+testo_band> per cui non si chiede più assegni famigliari e pensioni ma abbassamento delle tasse.
Infine, si chiede di liberare la <+nero>formazione scolastica e universitaria<+testo_band>: la famiglia vuole e deve poter scegliere liberamente il prodotto formativo che ritiene opportuno senza sovrapprezzi.

Meditare sulla famiglia al di fuori di un inutile “familismo” quindi, è un’esigenza non solo della Chiesa, ma di tutta la realtà sociale come elemento di sussidiarietà in grado come tale di limitare il potere centrale. Essa ci ricorda che Pubblico non è statale e che diritto non è sinonimo di legge la quale non fonda diritti, semmai li tutela.

Romina Balducci