Home Osservatorio Musicale Lucia, opera al nero

Lucia, opera al nero

Al centro la protagonista, il soprano Ruth Iniesta (Lucia) - PH Sebastian Hoppe

Riproposta alla Semperoper di Dresda Lucia di Lammermoor con la bellissima regia di Hilsdorf 

DRESDA, 29 aprile 2025 – Circondata da soli uomini sempre vestiti di nero. Senza poter contare neppure sulla solidarietà femminile: anzi, Alisa – che la regia interpreta come reincarnazione della madre di Lucia appena defunta – diventa anch’essa strumento del potere esercitato dalla famiglia sulla protagonista; mentre l’insofferenza delle damigelle, che dovrebbero accompagnare il mesto corteo nuziale, la dice lunga sulla loro opinione del matrimonio.

Il soprano Ruth Iniesta (Lucia) – PH Sebastian Hoppe

Nella Lucia di Lammermoor, bellissimo spettacolo di Dietrich W. Hilsdorf da poco ripreso alla Semperoper, domina il nero: speculare a una vicenda plumbea, dove non c’è posto per sentimenti radiosi ma solo per le feroci alchimie legate a rapporti di forza. La fragile protagonista appartiene a una società interamente dominata da maschi, poco importa se vecchi e malfermi sulle gambe: non rinunceranno per questo a esercitare il loro potere (anche oggi, del resto, sono spesso anziani governanti a volere le guerre). Per costoro, l’amore disinteressato che unisce Lucia ed Edgardo è un intralcio da rimuovere, poiché le donne sono moneta di scambio utile a saldare alleanze economiche e politiche. Lo spettacolo sembra così veicolare l’idea che le premesse di quel patriarcato, ora tornato drammaticamente d’attualità, furono poste proprio nel diciannovesimo secolo: laddove il libretto di Cammarano aveva invece retrodatato alla fine del cinquecento la fonte letteraria del romanzo di Walter Scott.

Potentissimo dunque l’impatto visivo, grazie a una serie di neon verticali – con la loro algida luce – e ai bellissimi costumi ottocenteschi disegnati da Gesine Völlm, rigorosamente neri. Pochi gli oggetti nella scena spoglia firmata da Johannes Leiacher: un letto che, da rifugio della protagonista, si trasforma in teatro dell’uccisione del suo sposo; e un lungo tavolo che, da catafalco su cui si avvicendano le bare, diventa punto di aggregazione dei commensali quando stringono le loro alleanze. In un’atmosfera così tetra, se per gli uomini l’unica consolazione sembra la bottiglia, alle donne spetta solo essere sottomesse. Ma Lucia non riesce a farsene una ragione e il suo sperdimento scivola sempre più verso la tragedia: il rifugio nella follia ne rappresenterà solo l’inevitabile corollario.

Grazie a un infallibile senso del teatro, nel 1835, Donizetti  era ben consapevole della necessità di valorizzare i contrasti drammaturgici del libretto, che avrebbero contribuito a definire le psicologie dei personaggi. Non si capisce, invece, perché la tradizione esecutiva si sia accanita su questo capolavoro con tagli dissennati, che hanno sfigurato il carattere pionieristico di questo “melodramma romantico”, forse nell’intento di retrodatarlo e condurlo nell’alveo di un virtuosismo canoro ormai fuori tempo massimo.

Protagonista, nel cast multietnico ascoltato alla Semperoper, il soprano spagnolo Ruth Iniesta, che ha disegnato una Lucia dolorosamente ripiegata su se stessa. In quel banco di prova rappresentato dalla scena della pazzia non ha cercato l’effetto belcantistico, privilegiando invece la caratura tragica del personaggio. Il tenore uzbeco Bekhzod Davronov – grazie a un’emissione sempre fluida – ha impresso a Edgardo i tratti appassionati dell’innamorato mai disgiunti, però, dai risvolti tragici del personaggio, mentre lo spietato fratello di Lucia era interpretato dal bosniaco Neven Crnić, baritono chiaro dalla scorrevole linea di canto e in possesso di una perfetta dizione italiana. La versione integrale restituisce a Raimondo (il giovane basso slovacco Peter Kellner, dai pregevolissimi mezzi) tutta la complessità del personaggio: non è soltanto il paterno educatore di Lucia, ma quasi un’eminenza grigia che si adopera per manipolare la giovane. Efficace nel ruolo – breve, ma arduo – dello sposo Arturo il tenore bosniaco Omer Kobiljak, visto dalla regia quasi come un dandy poco consapevole di esser precipitato all’interno di una tragedia. I due non memorabili comprimari, comunque assai ben definiti sul piano teatrale, erano il mezzosoprano Ewa Zeuner (una Alisa poco a fuoco musicalmente) e il tenore Gerald Hupach (un Normanno di voce pallida).

Al direttore Roberto Rizzi Brignoli è bastato coordinare la mitica Sächsische Staatskapelle Dresden e lo splendido Staatsopernchor per trarne magnifiche sonorità. Dato il buon livello del cast avrebbe forse potuto ottenere dai cantanti una maggiore idiomaticità donizettiana (qualche variazione in più nei ‘da capo’ maschili, per esempio) senza orientare troppo l’esecuzione verso il primo Verdi. Ha ovviamente approfittato della bravura degli strumentisti per un’esecuzione integrale, compreso l’utilizzo della glasharmonika, che d’abitudine viene sostituta dal flauto. Nel frattempo, in palcoscenico, alcuni coristi sfioravano con le dita l’orlo dei bicchieri, quasi a visualizzare la presenza dell’insolito strumento. Ulteriore esempio, in questo spettacolo, della sintonia tra musica e ciò che si vede in scena.

Giulia  Vannoni