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Lohengrin senza cigno

Lohengrin, una scena dello spettacolo - Ph Fabrizio Sansoni

Il capolavoro di Richard Wagner andato in scena con grande successo al Teatro dell’Opera di Roma  

ROMA, 2 dicembre 2025 – Potenza della musica di Wagner. In un Teatro dell’Opera occupato fino all’ultima poltrona (le cinque recite sono tutte esaurite), un pubblico attentissimo e molto coinvolto ha seguito con partecipazione, trasformatasi poi in entusiasmo, Lohengrin: capolavoro di Wagner che mancava dal teatro capitolino da cinquant’anni esatti. Tenuto conto che si tratta di oltre tre ore e mezzo di musica, chi osa dire che solo Traviata e Tosca riempiono i teatri? Solo qualcuno che non va mai all’opera e non ha la più pallida idea del magnetismo che certi titoli esercitano fra gli autentici appassionati; oppure non nutre alcuna fiducia nel fatto che un capolavoro possa affascinare pure chi lo ascolta per la prima volta. E al Costanzi è successo esattamente così con Lohengrin: lo dimostrano i colpi di tosse durante il ‘pianissimo’ con cui si apre il preludio, subito cessati via via che la musica procedeva.

Il tenore Dmitry Korchak (Lohengrin)- Ph Fabrizio Sansoni

Lo spettacolo inaugurale della stagione romana, va sottolineato, si presentava con tutte le carte in regola per soddisfare anche le aspettative di un pubblico eterogeneo: sul podio Michele Mariotti che, nei suoi quattro anni da direttore musicale del Teatro dell’Opera, ha costruito un invidiabile affiatamento con gli orchestrali; accurata la scelta degli interpreti, seppure non tutti allo stesso livello; allestimento affidato a Damiano Michieletto, oggi uno dei più celebrati registi operistici, ritenuto capace di svecchiare il repertorio rendendolo accessibile pure ai neofiti.

Come spesso accade nel teatro wagneriano, Lohengrin è opera in bilico su più versanti: storia e leggenda, dimensione umana e soprannaturale, in grado di coniugare aspetti quasi leggendari ad altri più terreni. Su tutto, poi, aleggia il nuovo spirito romantico e l’anelito alla giustizia, ereditato dal recente passato rivoluzionario (Wagner era stato sulle barricate di Dresda del 1848). Opera, dunque, che può essere interpretata in tanti modi, lasciando ampi margini di lettura. Mariotti ha guardato soprattutto alla tradizione esecutiva italiana, optando per una visione tendenzialmente lirica, raccolta, senza enfasi sul piano dinamico, e smussando – forse fin troppo – i contrasti fra le diverse sezioni strumentali. Se questo ha un po’ limitato i colori orchestrali, soprattutto dei fiati, non ha però impedito di far emergere quella ricchezza tematica che per Wagner rappresenta una cifra distintiva.

Grande attesa per il debutto del tenore russo Dmitry Korchak: uno dei beniamini del ROF pesarese che adesso, a quarantasei anni, ha scelto di affrontare ruoli vocali completamente diversi. Una magnifica interpretazione, culminata in un terzo atto dove – per merito della perfetta capacità di manovrare la voce, incontrovertibile eredità rossiniana – ha sfoderato un timbro luminoso, imprimendo alla figura di Lohengrin tratti trascendenti e, al tempo stesso, statura eroica. Accanto a lui l’americana, ma di scuola tedesca, Jennifer Holloway (emozionante la sua magnifica Senta con Nagano), sostanzialmente un soprano lirico capace di cantare con la stessa omogeneità di emissione anche nella zona più grave, è stata una Elsa intensa e piena di sfumature, grazie a una linea di canto concentratissima e, al contempo, frastagliata che la differenzia nettamente dai cliché odierni. La dialettica con Ortrud – interpretata da una bravissima Ekaterina Gubanova, mezzosoprano capace di scatti sopranili – enfatizzava lo scontro fra le due donne, restituendo le numerose sfumature psicologiche dei due personaggi.
Purtroppo inadeguato al ruolo di Telramund il baritono Tómas Tómasson, per un’emissione alquanto scompaginata. Clive Bayley, nei panni di Enrico l’Uccellatore, ha cercato di supplire ai propri limiti vocali con una notevole presenza scenica. Inappuntabile, invece, il baritono Andrei Bondarenko: un araldo di voce sonora e ben timbrata, dall’emissione sempre omogenea. Magnifico il coro, come di consueto preparato da Ciro Visco, e qui chiamato ad assolvere un compito molto impegnativo.

Lo spettacolo di Michieletto non aveva una direzionalità precisa: comunque, fin dal preludio, ha nettamente privilegiato il punto di vista di Elsa. Pur in un andamento zigzagante, la regia offriva immagini suggestive, complici le fantasiose soluzioni del bravo scenografo Paolo Fantin. Efficacissima la trovata della bara bianca scoperchiata da Ortrud (che aveva trasformato in cigno il piccolo Gottfried), da cui escono svolazzanti piume bianche; più discutibile la fine di Telramund, che qui si procura da solo la morte anziché essere ucciso da Lohengrin. L’iconico cigno, invece, viene sostituito da un uovo (simbolo femminile di rigenerazione), che troneggia al centro del palco e spesso ricompare sulla scena, moltiplicato, quasi a sottolinearne l’imprescindibilità.
Il regista, poi, punta molto sul confronto tra le due donne. Dalla smania di potere che attanaglia Ortrud, ben rappresentata dagli abiti borghesi (costumi di Carla Teti), non è immune neanche Elsa, seppure con modalità differenti. Quando guarda attraverso la fenditura al centro dell’uovo, qui diventa cieca: neppure lei è in grado di trascendere certi limiti femminili e pretende da Lohengrin l’impretendibile, facendo così svanire l’incantesimo. Come una borghese qualsiasi, verrebbe da dire, sia pure con un sovraccarico di tormento.

Giulia Vannoni