Tempi biblici per gli esami costringono spesso i pazienti a ricorrere alla sanita privata, ma con costi cari. E non tutti possono permetterseli. Risultato? Non ci si cura
Le a speranza di vita alla nascita aumenta (83 anni a Rimini e 82,7 anni in Italia) e una parte del merito va senza dubbio anche al Sistema Sanitario Nazionale.
Sistema universale, cioè aperto a tutti, indipendentemente dalle condizioni economiche e sociali delle persone. Una conquista, conforme all’articolo 32 della Costituzione dove sta scritto che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”, che fa la differenza con altri sistemi sanitari, come quello americano, dove prima di accoglierti in qualsiasi struttura ospedaliera ti chiedono la Carta di credito. Cioè se puoi pagare. Se non disponi di un conto in banca ti buttano letteralmente in strada (vedere il documentario Sicko del regista americano Micheal Moore). Secondo un sondaggio della Federazione dell’Ordine dei Medici (Fenomceo) la sanità deve essere pubblica per tre italiani su quattro e il 90% la ritiene una priorità per il Governo. Qualcosa però sta scricchiolando.
La speranza di vita dell’Italia, secondo l’ultimo rapporto Ocse Health at a Glance 2023 (la salute in sintesi), è scivolata dal terzo al nono posto, dopo un bel gruppo di Paesi come Giappone, Corea del Sud, Svizzera, Spagna, Lussemburgo e altri.
È vero come afferma il Governo che la spesa sanitaria in assoluto sta crescendo, ma considerando l’inflazione e l’aumento della domanda di cure, anche per ragioni demografiche, l’Italia è ben al di sotto della media degli altri paesi: 2.379 euro a parità di potere d’acquisto è, infatti, la spesa per abitante 2023 del nostro paese, a fronte di 3.759 della Francia, 4.373 della Germania, 3.917 dell’Olanda, 3.254 del Regno Unito e 2.521 della Spagna. Sul complesso della spesa pubblica, l’Italia spende per la sanità, nel 2021, il 12%, a fronte di una media dei paesi sviluppati del 15%, che arriva al 20% in Germania e al 22% in Giappone (Ocse).
Non posso permettermi di curarmi
Le conseguenze, oltre a medici e infermieri sottopagati, che quando possono scappano nel privato o all’estero (solo in Lombardia nel 2023 sono migrati all’estero 630 medici), sono le lunghe fila ai Pronto Soccorso e le liste di attesa ampiamente oltre i tempi programmati.
Per fare prima, perché non sempre sono compatibili con altri interventi, magari collegati, non resta che il ricorso al privato.
Ma non tutti se lo possono permettere. Dopo la Bulgaria, l’Italia è il secondo paese dell’Unione Europea per numero di persone a rischio povertà con serie difficoltà a curarsi: il 40% (Eurostat). Si tratta di 4,5 milioni di italiani che non disponendo di risorse sufficienti rinunciano a curarsi, tra cui tanti anziani. Prima del Covid erano 1,5 milioni (Istat, BES). Vuol dire che è triplicata, in un paio di anni, la povertà sanitaria. Una cura amara che non allunga certo la vita.
E il rapporto Ocse lo conferma. Più dolce, invece, l’esito per la sanità privata, anche convenzionata, che nel 2021 ha fatturato 9 miliardi di euro, il 15% in più dell’anno prima, inclusi i 798 milioni di euro del Gruppo Villa Maria di Rimini. Fatturato della sanità privata che nel 2022 è salito a 10,6 miliardi di euro (Uffici Studi Mediobanca).
Tempi biblici per gli esami
Tutto questo ha notevoli ricadute sulla sanità dei territori, che deve fare i conti con risorse umane, materiali e finanziarie sempre più scarse. Sanità che pesa per circa l’80% sui bilanci delle Regioni, da cui dipende, sempre più in rosso.
Succede anche a Rimini. Qualche esempio. Per una visita Oct Macula (Tomografia ottica computerizzata) di una paziente di 94 anni, propedeutico ad un intervento di cataratta, il primo appuntamento, prenotato all’inizio di quest’anno, era per il 2026. Privatamente, pagando poco più di 100 euro, è stato possibile farla nel giro di un paio di settimane; una risonanza magnetica, differibile, prenotata a metà settembre, primo appuntamento disponibile, nel distretto di Rimini, gennaio 2025.
Recandosi a Imola si sarebbe potuto anticipare a novembre prossimo.
Le cose vanno meglio per le analisi del sangue, dove tutto si svolge in maniera abbastanza rapida, con risultati che addirittura sono dati nel pomeriggio dello stesso giorno del prelievo. Ricordiamo che per legge le visite devono avvenire entro 72 ore per il codici U (urgenza), entro 10 giorni per il codice di priorità B (breve), entro 30 giorni per il codice D (differibile) se trattasi di visite e 60 giorni per esami, entro 120 giorni per il codice P (programmati). Che in molti casi questi tempi non sono rispettati è cronaca quotidiana.
Ma quante volte non sono rispettati è un mistero, anche in Emilia-Romagna, perché l’organismo che doveva vigilare, per legge, sulle liste di attesa, la cui operatività era prevista per il 2006, è ancora al di là da venire. Le cose non sono cambiate con il nuovo Governo in carica. L’ultimo Rapporto sul sistema sanitario dell’Emilia Romagna risale al 2015 e il monitoraggio dei tempi di attesa più recente al periodo ottobre-dicembre 2019.
Alcuni esempi per tipologia di visita e presidio: TdiA angioplastica (cuore), presso l’Ospedale di Santarcangelo, rispetto dei tempi nell’84% dei casi, all’Ospedale di Cattolica 81%; coronografia del cuore, rispetto dei tempi, sempre nei due Ospedali sopra citati, rispettivamente il 91 e il 97%; tumore alla mammella 95% a Santarcangelo e 100% a Cattolica; tumore al polmone, nel presidio ospedaliero di Riccione-Cattolica, tempi rispettati nel 98% dei casi (https://amministrazionetrasparente. auslromagna.it/amministrazionetrasparente/ servizi-erogati/liste-diattesa).
Pronto Soccorso sempre più intasati
Ora, tutti sappiamo che dopo la pandemia la situazione sanitaria è molto cambiata e non disporre di un monitoraggio che misuri il rispetto dei tempi di attesa e il grado di raggiungimento degli obiettivi è veramente imperdonabile. Dati, ovviamente, pubblici. I lunghi tempi di attesa, che in molti casi vuol dire rinvio delle cure, probabilmente sono all’origine dell’assalto ai 615 Pronto Soccorso italiani, i cui accessi sono in crescita esponenziale: da 13,3 milioni del 2020 a 18,5 milioni del 2023, di cui 12,4 milioni con codici bianchi e verdi, cioè meno gravi, e addirittura 4 milioni considerati impropri (Agenas). Ingressi, meno gravi e impropri, che causano un notevole rallentamento dell’attività di vera emergenza. Perché, di fatto, i Pronto Soccorso vengono utilizzati in sostituzione del medico di famiglia, disponibile con prenotazione non più di mezza giornata, escluso i ne settimana. Non è minore la pressione, che viene anche dai turisti, nei Pronto Soccorso del distretto sanitario riminese dove si sono registrati, nel 2022, 163.000 ingressi complessivi, così divisi per Ospedale: Infermi di Rimini 95.000, Ceccarini di Riccione 31.000, Cervesi di Cattolica 15.000, Franchini di Santarcangelo 14.000, Sacra Famiglia di Novafeltria 8.000. (Agenas). Avere un Pronto Soccorso non troppo distante sicuramente è un servizio importante, soprattutto nelle aree interne (a Rimini il 96% della popolazione vive a meno di un quarto d’ora d’auto da un ospedale, a Forlì-Cesena l’89 a Ravenna il 92%), ma va ricordato che 20.000 accessi è la soglia considerata minima per garantire sicurezza e qualità di cura. Vuol dire che non basta uno sportello per avere cure adeguate.
L’arrivo del Cau, ma funzionano davvero?
Per togliere di mezzo dai Pronto Soccorso, tutti a corto di medici e di infermieri (in Italia mancano 4.500 medici, a Rimini 5, e 10.000 infermieri) gli accessi impropri e meno gravi, senza intralciare le vere emergenze, stanno sorgendo i Cau (Centri di Assistenza e Urgenza), aperti tutto il giorno, anche i ne settimana. Sicuramente un tentativo di trovare una soluzione anche se, stando ai primi dati 2024, non pare che gli accessi ai Pronto Soccorso della Romagna stiano diminuendo, escluso quelli dei Punti di Primo Intervento, incorporati nei Cau, quindi chiusi. E sta capitando qualcosa che apparentemente sembra andare in direzione opposta a quella sperata: gli accessi ai PS sono aumentati (+5% a Rimini e +14% a Riccione) nonostante si siano registrati, da gennaio a luglio 2024, in tutta l’area dell’Ausl Romagna, 83.000 accessi ai Cau, con una media di circa 400 al giorno (Fonte Ausl Romagna). Insomma, si procede per somma, invece che per sottrazione. Di questo paradosso al momento non c’è spiegazione. Se non che la domanda di sanità è così elevata (si ricorda che in provincia di Rimini i percettori del Reddito di cittadinanza erano, nel 2020, più di sei mila, mentre oggi l’Assegno di inclusione, che ha sostituito il Rdc, copre appena 2,5 mila persone) che ogni spazio gratuito che aiuti a stare meglio diventa un rifugio (magari inappropriato). Oppure, altra ipotesi, c’è il fattore turista che non conosce i Cau e sceglie per abitudine i PS. Però i dati regionali, relativi ai primi sette mesi 2024, pare indichino il contrario, che cioè l’apertura dei Cau ha fatto diminuire gli accessi ai PS del 7%, rispetto allo stesso periodo dell’anno prima. Non ci sono, però, dati per singola Ausl che possano consentire di vericare la situazione nei singoli territori. Per ultimo, in un recente sondaggio Cgil Rimini, su una platea di un migliaio di rispondenti, emerge che l’accesso ai servizi sanitari viene indicato come una priorità assoluta, assieme alla riduzione dei tempi di attesa per le visite e al funzionamento dei Pronto Soccorso. Sanità pubblica e universale sempre più necessaria considerando anche che il ricorso a quella privata diventa sempre più oneroso: nei primi otto mesi del 2024, a Rimini, i prezzi dei ‘servizi sanitari e spese per la salute’ sono aumentati del 3,8%, contro una inazione media provinciale dell’1,6%, a fronte dello 0,9% regionale (Istat).