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Lo Schindler di Buenos Aires

Lo chiamano lo Schindler di Buenos Aires. Dopo Garibaldi c’è un altro eroe dei due mondi, nonostante la politica nostrana l’abbia relegato nel dimenticatoio senza mai farsi perdonare. Per questo è poco conosciuto quando, invece, meriterebbe a pieno titolo il ruolo di Ministro degli Esteri. Si chiama Enrico Calamai ed è l’ex vice console italiano a Buenos Aires. Ha salvato 500 persone dalla persecuzione dei militari dittatori. Parliamo della seconda metà degli anni 70, quelli dei desaparecidos, i giovani attivisti sottratti alle famiglie per essere torturati e massacrati. Calamai ha rischiato la vita procurando passaporti falsi e facendone fuggire quanti più poteva prima di essere tolto di mezzo dal Governo italiano, perché rischiava di compromettere i rapporti economici tra i due stati (venne spedito in Nepal). L’eroe, nonostante non condivida tale appellativo, “ho solo fatto il mio dovere”, ha raccontato la sua storia nel recente incontro organizzato dalla Repubblica di San Marino.

Calami, quando tornò in Italia nel ’77 che paese trovò?
“Un paese egoista, non consapevole delle tragedie che accadevano attorno. C’erano, sì, conquiste in termine di diritti sociali, crescita e sviluppo, dove tutto era più facile, ma quella facilità non si traduceva in maggiore consapevolezza della realtà mondiale”.

Lei veniva dai massacri argentini. Cosa provò al rientro?
“Arrivai molto provato dalla vicinanza con la violenza e soprattutto dalla percezione che il Governo italiano la accettasse. Avevo un’idea dello Stato di natura etica, come di qualcosa fondato sui diritti e che rifiutasse la violenza. Un’idea che non ha trovato riscontro nella realtà”.

Che risposta le diedero quando chiese conto del suo ‘licenziamento’?
“Al rientro, i governanti mi hanno ricevuto, ma non ascoltato. Tornavo da sconfitto ed è stata molto dura. Allontanarmi dal Consolato è stato come dire a chi mi avrebbe succeduto che il mio lavoro non andava più fatto”.

Perché?
“Realpolitik. Tutti gli stati, non solo l’Italia, agiscono secondo una logica che non ha nulla a che vedere con la tutela dei diritti umani. C’è un profondo conflitto tra democrazia e diritti. La politica estera si muove ancora in base a degli interessi economici che, nel caso di Italia-Argentina, consistevano nella nostra partecipazione ai grandi progetti infrastrutturali che i militari/dittatori avrebbero lanciato in quello che era uno dei paesi più ricchi di risorse al mondo, l’Argentina. I politici italiani sapevano che mantenere rapporti privilegiati avrebbe portato benefici finanziari per il Paese, occupazione e quindi, in termini di consenso, rielezione. Non si vedeva l’aspetto umano, ma il vantaggio elettorale. E la stessa cosa avviene oggi”.

Utopia, ipocrisia… cosa sono dunque i diritti umani?
“Dovrebbero essere visti come una lotta continua in cui un ruolo fondamentale lo gioca l’informazione. A tal proposito ho un aneddoto. All’epoca il sistema dell’informazione era influenzato dalla Loggia P2 di Licio Gelli. Poco prima della finale dei mondiali di calcio in Argentina, l’arbitro venne sostituito con un altro italiano arrivato in auto allo stadio nella macchina di Gelli… Si sapeva che doveva vincere il paese ospitante…”.

È più tornato in Argentina?
“Molto dopo, nel 2001. Ho ripercorso i luoghi che ho cercato di cancellare dalla memoria. Lì ho capito che si è tratto di fatti veramente accaduti ed è stato molto emozionante. Ho assistito alla manifestazione del 24 marzo (la commemorazione delle vittime della dittatura) e ho visto una grande commozione generale di fronte al passaggio della bandiera con le foto dei ragazzi scomparsi”.

Lei stesso era un ragazzo quando prestò servizio in Argentina.
“Ero molto giovane, mi trovavo ad aiutare coetanei e ragazzi più giovani di me. Avevo 32 anni quando me ne andai. I giovani erano presi di mira perché avevano studiato e, dopo il ’68, si era sparsa in tutto il mondo la convinzione di poter scuotere il potere per ottenere riforme. Erano dei ragazzi generosi, preparati e decisi a cambiare la realtà socio-economica del loro paese”.

E oggi ha fiducia nel futuro?
“Onestamente non lo vedo molto diverso dal passato. Credo che molto dipenda dalla società civile, ma questa è a sua volta condizionata da un’informazione iconografica che risponde a degli interessi neo-liberisti. La storia si ripete. Oggi i nuovi desaparecidos sono quanti perdono la vita nel Mediterraneo. La stampa o si fa coinvolgere emotivamente dalle grandi tragedie o tende a farle scomparire. Nel caso dei migranti abbiamo limitato il dibattito a un perché non se ne stanno a casa se devono soffrire in mare? Viviamo con indifferenza il dramma delle migliaia di morti; dimentichiamo che è un obbligo internazionale ospitare i richiedenti asilo, anche se comporta dei costi, ma è un messaggio difficile da far comprendere. E il muro di gomma dell’indifferenza mediatica è difficile da abbattere”.

Come fare in modo che la storia non si ripeta?
“Le uniche armi sono portare avanti le informazioni e ricorrere alla memoria come strumento di interpretazione dell’oggi. Le scuole rappresentano un tassello fondamentale, perché i giovani sono di quanto di più ricettivo ci sia. Agire significa improntare nel presente la memoria di quegli eventi”.

Mirco Paganelli