Home Lavoro L’insostenibile leggerezza dei contratti turistici

L’insostenibile leggerezza dei contratti turistici

Nel 2021, l’ultimo anno per cui sono disponibili i dati Inps, in provincia di Rimini, la manifattura da lavoro ha 18.000 dipendenti e il settore alloggi e ristorazione, cioè il turismo, ne ha quasi 31.000 (33.000 nel 2019). Nel primo il salario medio annuo lordo per lavoratore è di 26.000 euro, nel secondo non arriva a 7.000 euro. La differenza è rimarchevole. La spiegazione di questa forbice risiede in due fattori che pesano sul risultato, compreso il retributivo: la durata del periodo lavorativo e la paga oraria. Nella manifattura riminese l’87 per cento del personale dipendente gode di un contratto a tempo indeterminato, che al contrario copre solo il 17 per cento, cioè uno su sei, di chi lavora nel turismo. Settore caratterizzato da stagionalità e tempo determinato e con una maggioranza di occupati donne. Lavorando, in tanti, ma per periodi brevi si comprende facilmente il motivo per cui la retribuzione media annua di ‘alloggio e ristorazione’ sia alla fine così bassa. La situazione non cambia nemmeno se il confronto lo facciamo a parità di condizioni contrattuali: cioè, concentrandoci sui contratti a tempo indeterminato, lasciando fuori tutto il resto. Contratti a tempo indeterminato che riguardano 16.000 addetti nel manifatturiero e 5.000 nel turismo. Ma anche con questo accorgimento, confrontando un contratto a tempo indeterminato nel manifatturiero e nel turismo, le differenze salariali restano significative: 28.000 euro la retribuzione media nel primo, 13.000 euro nel secondo. Come mai? Semplice. Approfondendo si scopre che avere un contratto a tempo indeterminato non significa automaticamente lavorare dodici mesi l’anno. Infatti, mentre nel manifatturiero l’86 per cento degli occupati a tempo indeterminato lavora 52 settimane l’anno, per 302 giornate retribuite, questo capita solo ad un terzo di chi lavora nel turismo con un contratto stabile. Meno di 2.000 lavoratori/trici, che rapportati al totale degli occupati nel turismo rappresentano appena il 6 per cento. Un lavoratore ogni quindici. A parità di regime contrattuale e a quasi (nel turismo sono leggermene meno) parità di giornate annuali retribuite, i salari sono più alti in entrambi i settori di attività, ma non spariscono le differenze: perché mentre un lavoratore manifatturiero prende in media 30.000 euro, nel turismo si ferma a 18.000 euro. Una differenza strutturale che trova spiegazione nel fatto che il turismo produce un valore aggiunto molto più basso del manifatturiero. Capita in tutto il mondo, con declinazioni locali dipendendo dal tipo di turismo, la grandezza degli hotel e altro. Questo vuol dire che se la torta è più piccola, non ci si può attendere che i salari siano ai massimi livelli. A questo punto, per risollevare i salari reali, qualcuno ci ricorderà il contributo del lavoro nero, piuttosto diffuso nel turismo. Verissimo. Ma una impresa o un settore che non riesce a sopravvivere rispettando le regole, particolarmente in campo lavorativo (la retribuzione media giornaliera nel turismo è di 61 euro, a fronte di 96 euro in manifattura) non può poi lamentarsi se non trova personale. Si aggiunga, a peggiorare la situazione, che con la riforma fiscale in corso di approvazione chi ha una Retribuzione Annuale Lorda (Ral) minore di 8.469 euro, siccome viene ritenuto incapiente, non beneficia di nessun sgravio fiscale e tantomeno di trattamento integrativo. Cosa fare? Aumentare i controlli con un maggior numero di ispettori del lavoro, incentivare il passaggio degli hotel, in particolare i tre stelle, che sono la maggioranza, a categorie superiori, proseguire, con nuovi prodotti (per esempio, il turismo del benessere e altri), verso una nuova fase di destagionalizzazione (dopo fiere e congressi), che porterebbe un maggior numero di attività a restare aperte tutto l’anno, offrendo un lavoro più stabile. Al momento, su questo fronte, ci sono stati molti buoni annunci, ma pochi fatti.

Alberto Volponi