Lo Stabat Mater di Pergolesi e brani di Scelsi diventano un oratorio per la regia di Castellucci
ROMA, 28 ottobre 2025 – Una sacra rappresentazione capace di far vibrare le corde più intime. E non importa se l’aspetto musicale diventa talvolta secondario rispetto al potentissimo impatto visivo. Nella cornice gotico romanica – fastosa e al tempo stesso severa – della basilica di Santa Maria in Aracoeli sul colle del Campidoglio nel cuore di una Roma capitale della cristianità e del potere politico, Romeo Castellucci ha ambientato un vero e proprio rito: un oratorio dove lo Stabat Mater, estremo capolavoro di Giovanni Battista Pergolesi (1736), si trova incastonato fra musiche di Giacinto Scelsi. Lo spettacolo, anche se sarebbe più esatto parlare di liturgia, era inserito nella programmazione dell’Opera di Roma, con il direttore Michele Mariotti alla guida dell’orchestra e del coro di voci bianche del teatro.

Su un interminabile e nudo palcoscenico, disposto lungo l’intera navata centrale, hanno fatto il loro ingresso gli orchestrali, direttore compreso, in assetto di guerra – anfibi, casco e tuta mimetica – prima di raggiungere la loro postazione davanti all’altar maggiore; e da qui sono iniziati i Quattro pezzi per orchestra (ciascuno su una nota sola) di Scelsi, composti nel 1959. Le loro sonorità novecentesche creano continui e angoscianti cortocircuiti con quei rumori di guerra cui abbiamo fatto l’abitudine da qualche anno, mentre in palcoscenico immagini rarefatte e ieratiche evocavano una plumbea atmosfera legata ai conflitti armati: basterebbe pensare alle tre aste – unico elemento scenico – che cominciano a roteare nello spazio simulando taglienti traiettorie di armi, e in seguito si trasformeranno nelle spade che trafiggono la Madre.
L’orchestra passa poi dalla parte opposta della basilica per lo Stabat Mater: epitome di tutti le sofferenze dell’umanità, perché lo strazio della perdita di un figlio non ha uguali fra i dolori umani. Mariotti ha in qualche modo amplificato una musica meravigliosa e struggente, scritta da Pergolesi – sui versi della sequenza attribuita a Jacopone da Todi – poco prima di morire a soli ventisei anni, enfatizzandone la rotondità fonica e lo spessore: ne scaturisce una fertile alchimia con le immagini di Castellucci, in netto contrasto drammatico tra suono e visualità.
Splendide poi le due interpreti, il soprano ungherese Emöke Baráth e il contralto Sara Mingardo, per la straordinaria espressività vocale e la capacità di trasmettere intense emozioni, grazie anche a gesti che appartengono a un immaginario nutrito di citazioni iconografiche. Potentissima l’entrata in scena del contralto che viene espulsa, anzi quasi partorita, da un cumulo di mimi mentre il soprano disegna dei cerchi che sembrano aiutarne la nascita: e da questa sorta di sdoppiamento della Madre lo spettatore addiviene alla cognizione del Figlio (che Castellucci appende alla croce, ma di spalle, senza mostrarne il volto).
Il vertice emotivo viene raggiunto però con l’ingresso dei bambini, tutti vestiti di grigio: si muovono a piccoli passi, cauti, coprendosi gli occhi quasi per non vedere. Lentamente diventano una presenza sempre più incisiva: seduti sui bordi del lunghissimo palcoscenico, stringono fra le braccia statue lignee di Gesù, variamente mutilate, dalle proporzioni enormi rispetto alla loro corporatura. E nella serietà degli sguardi e nei teneri gesti di affetto con cui i ragazzini abbracciano Cristo, si legge quel rapporto con il sacro che gli adulti faticano a introiettare.
L’oratorio si conclude, tornando ancora alle musiche di Scelsi – Ave Maria, Pater noster, Alleluia del 1970 – mentre tutti si allontanano in silenzio e il portone centrale d’ingresso della basilica si spalanca sulla Roma notturna. Si esce con l’immagine incisa negli occhi e nel cuore della bambina – cinque o sei anni al massimo – con gli occhialini e le treccine che accarezza dolcemente una statua tanto più grande di lei. Testimone e interprete di una pietas di cui i piccoli sembrano oggi gli unici custodi.
Giulia Vannoni





