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Less is more

Pagliacci, una scena dello spettacolo - PH Fabrizio Sansoni

Al Teatro dell’Opera di Roma ripreso il vecchio allestimento di Zeffirelli dei Pagliacci di Leoncavallo affidato alla bacchetta di Daniel Oren 

ROMA, 17 marzo 2023 – Fu vera gloria? Riproposti a distanza di un trentennio, gli storici Pagliacci messi in scena da Franco Zeffirelli nel 1992 al Teatro dell’Opera di Roma, e ripresi in molte stagioni successive, innescano una serie di riflessioni. La visione dello spettacolo è un’esperienza per molti aspetti straniante e, più che a un nostalgico déjà-vu di quell’eccellenza estetica italiana, di cui si favoleggia talvolta anche a sproposito, fa riflettere su come sono cambiati gli allestimenti operistici negli ultimi anni.

Pagliacci, il soprano Nino Machaidze (Nedda), il tenore Matteo Falcier (Beppe), il baritono Amatyuvshin Enkbath (Tonio) – PH Fabrizio Sansoni

È difficile concepire oggi un palcoscenico altrettanto affollato e sovraccarico di sollecitazioni e colori, al punto da creare un certo effetto frastornante. Rispetto all’originale, tuttavia, è verosimile che Stefano Trespidi – è lui che ha ripreso lo spettacolo – abbia incontrato qualche difficoltà nel disciplinare lo sterminato numero di persone sul palco: dal coro agli acrobati, dai mimi ai musicanti. In questo carnevale, che un po’ satura gli occhi, passano così in secondo piano i singoli personaggi, con gli interpreti che danno talvolta la sensazione di regolarsi in proprio. E se oggi, in tempi di forzato minimalismo – inteso come scelta non solo estetica ma pure condizionata dai costi – sono le luci ad aver assunto una funzione sempre più rilevante, proprio questo aspetto è apparso l’elemento più debole dello spettacolo: c’è comunque da immaginare che l’originale zeffirelliano fosse molto più articolato quanto a disegno luminoso.

Nello stordimento visivo, il rischio – sempre in agguato – è quello di riservare poca attenzione al versante musicale: pericolo fortunatamente scongiurato al Teatro dell’Opera grazie a Daniel Oren, oggi come allora sul podio, direttore che domina appieno la partitura e sa anche fornire un adeguato supporto ai cantanti. Ben assecondato dall’orchestra, ha cesellato sonorità morbide e suadenti, aprendo pure intensi squarci drammatici e preoccupandosi di valorizzare quella remota eco wagneriana che talvolta affiora, come nel duetto tra Nedda e Silvio. Meno condivisibile l’inserimento di un intervallo tra primo e secondo atto, al solo scopo di aumentare la lunghezza di una serata altrimenti troppo breve. Ne scapita soprattutto l’intermezzo, che dovrebbe collegare Vesti la giubba al successivo inizio della commedia, mentre si trasforma nel preludio di un nuovo atto, smorzandone così la temperatura drammatica.

Alla riuscita musicale però non basta la sola bacchetta: è fondamentale il contributo del cast. Quello di Roma poteva contare su illustri cantanti, a cominciare dal baritono Amartuvshin Enkhbat, fino ad oggi acclamato interprete verdiano. Anche nel verismo di Leoncavallo – alle prese con un declamato dove la dizione, per chi non è italiano, può tendere insidie – il suo canto è apparso sorvegliatissimo: ha disegnato il personaggio del deforme Tonio con stupefacente sicurezza e grande incisività drammatica. Ci voleva, insomma, un cantante proveniente dalla Mongolia per rinverdire la gloriosa scuola baritonale italiana.
Al suo debutto in quest’opera, il tenore romano Luciano Ganci ha affrontato il ruolo di Canio con sicurezza e appena qualche tensione nelle ascensioni in acuto: una prova salutata con grande cordialità dal pubblico e verosimilmente destinata a crescere nelle recite a venire. La georgiana Nino Machaidze, ottima interprete di tanto Rossini serio, resta una cantante d’indubbia classe, ma non sempre è riuscita a trasmettere – anche a causa di una dizione poco nitida – i sentimenti di Nedda: prima disillusa e sognatrice nella sua ballatella, poi sempre più ribelle e disposta al sacrificio estremo, nell’intento di sottrarsi alla grettezza dell’ambiente in cui vive. Un bel primo piano, nella serenata di Arlecchino, se lo è ritagliato il tenore Matteo Falcier. Peccato invece per Vittorio Prato, non in grado d’imprimere a Silvio quel carattere deuteragonistico che l’amante di Nedda dovrebbe avere, a causa di un’emissione – la scrittura di Leoncavallo è concepita per baritono – quasi tenorile, che toglie spessore drammatico al personaggio.

Il pubblico applaude con entusiasmo interpreti e direttore, tributando un omaggio postumo anche a Zeffirelli (è il centenario dalla sua nascita), amatissimo a Roma. Forse anche lui oggi si sarebbe accostato in altro modo a quest’opera, nella consapevolezza che ormai in teatro vige la regola del “less is more”.

Giulia Vannoni