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Le vere suore di Federico Fellini

Sono le protagoniste della più surreale e irriverente sfilata di moda ecclesiastica della cinematografia. Insieme ai prelati che pattinano, le suore con il cappellone del film Roma (nella foto) sono diventate un’icona, popolando l’immaginario collettivo di più generazioni.

Così definite perché le Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli vestivano veramente il copricapo a due grandi falde: nei ricordi di Fellini quelle suore dirigevano l’asilo frequentato quand’era solo il piccolo Federico. Per molti storici e biografi, le affermazioni di FF sono una delle numerose verosimiglianze o “bugie” che il regista di Amarcord dissemina, colorandole, nelle sue memorie. Il sito www.federicofellini.it, ad esempio, è drastico. “Fellini nei suoi ricordi parla dell’asilo delle suore di San Vincenzo, le suore «cappellone». In realtà a Rimini non è mai esistito. Certamente si trattava di quello delle suore di Maria Bambina, in via Angherà 21”.

In realtà, l’asilo è esistito, le “suore cappellone” pure (presenti in Diocesi dal 1853) e come già accaduto per la casa natale, la ricerca condotta con passione puntigliosa da Davide Bagnaresi riconsegna alla storia alcune verità. Significative, e non solo curiose.
“Indagare l’infanzia e la giovinezza di Federico Fellini nella sua Rimini non è un’opera morbosa, neppure guardare dal buco della serratura la vita di uno dei più grandi registi del mondo per scoprire chissà quali pruriginosi segreti. – ne è certo lo storico riminese Bagnaresi – Piuttosto, squadernare la vita di FF sin dai primi anni, e i rapporti in essa contenuti e sviluppati, consente di arricchire la conoscenza non solo del regista ma soprattutto dei suoi film in tante sfumature. Si possono così comprendere dettagli altrimenti incomprensibili. Rimini, l’infanzia, la famiglia, l’esperienza religiosa è presente a pieni frame nella maggioranza delle pellicole del regista”.

Solo per restare alle suore cappellone, la sfilata ecclesiastica romana è solo una delle diverse apparizioni delle religiose, che compaiono in cameo anche ne Lo sceicco bianco, Le notti di Cabiria, La Dolce Vita, I clown, per non parlare della suora nana di Amarcord. Sì, proprio quella figura che – unica – riesce a convincere lo zio matto di Titta a scendere dall’albero dopo aver urlato a pieni polmoni la famosissima: “Voglio una donna”.

Proprio la suora nana, anch’essa relegata nella sfera delle “verosimiglianze” fellliniane, anch’essa era una religiosa in carne ed ossa. Don Fausto Lanfranchi, biografo di Alberto Marvelli, postulatore della causa dell’ingegnere di Dio ma anche vicario generale della Diocesi di Rimini per molti anni, è noto per la sua memoria di ferro. “Suor Pia (mi pare si chiamasse proprio così) era una religiosa molto bassa ed esile. Non aveva le fattezze da nana, ma era decisamente di bassa statura. Operava come infermiera e assistente in sala operatoria all’Infermi, quando ancora l’ospedale era sito in via Tonini, in pieno centro storico. Indossava il tipico cappellone delle suore della San Vincenzo che, data la sua statura, la ricopriva tutta”. Sembrava un fungo.

L’asilo, quello vero

La storiografia riminese riporta sempre l’asilo delle suore di Maria Bambina, in via Angherà.
La famiglia Fellini, dopo aver abitato in via Dardanelli, si è spostata armi e bagagli al civico 63 (ora 115) di Palazzo Ripa, percorrendo Corso d’Augusto, “la prima che ricordo veramente”, come scrisse FF. Un bel palazzo signorile, centralissimo, ingentilito da un portale in cotto incorniciato da un terrazzo con le balaustre in ferro battuto e con il cortile interno, in cui i Fellini abitarono in un appartamento al secondo piano.

Lungo il Corso c’era anche il più volte citato Bar di Raoul. Da Palazzo Ripa, proseguendo sempre diritto si incontra via Soardi e successivamente via Isotta fino ad incontrare – sempre nel cuore di Rimini – via Bonsi. È proprio qui – all’incrocio di queste due strade – che sorgeva il famoso asilo che Fellini non si è affatto sognato.

Cosa ha tratto in inganno gli storici? Nei documenti è citato come Istituto San Giuseppe, al n. 11 di via Bonsi angolo via Isotta, proprio di fronte alle suore di Sant’Onofrio. Don Lanfranchi ricorda perfettamente l’edificio, in seguito sede dell’Azione Cattolica. La mamma di Federico, Ida Barbiani, in una intervista a firma Nevio Matteini pubblicata nel 1964 su “La Nuova Antologia” racconta l’infanzia del figlio, che ama i colori e i disegni e le marionette e che ha frequentato l’asilo presso l’Istituto San Giuseppe.

Terza prova. La visita pastorale del vescovo Scozzoli (la terza) iniziata sul finire degli anni Dieci, approda a Sant’Onofrio e al n. 11 della stessa via, all’oratorio pubblico “del Pio Istituto San Giuseppe gestito dalle suore di San Vincenzo” annota nella cronaca, gentilmente rintracciata nella Biblioteca diocesana “Biancheri” dalla bibliotecaria Federica Giovannini stimolata da Bagnaresi. L’istituto si componeva di “scuola a pagamento, laboratorio per giovinetti, patronato delle Figlie del Popolo e Scuola superiore femminile di religione”.

Se tre indizi che fanno una prova (Agatha Christie dixit) ancora non bastano ai più scettici, basta rintracciare la Guida di Rimini e dintorni del 1923 riedita da Ghigi e sfogliare le prime pagine dove compare l’asilo e il pensionato in questione, diretto da suor Agnese Migliarini.

Tutti i tasselli sono al loro posto. FF questa volta non ha inventato nulla: l’asilo frequentato è proprio quello delle suore cappellone, ma si chiamava Istituto San Giuseppe ed era a due passi da casa sua. Conferma le due classi elementari in via Bonsi l’Annuario degli Istituti Medi e Pareggiati del 1927. E la madre dirà che frequenterà nell’Istituto anche le prime due classi di scuola elementare, per poi traslocare alle “Tonini”; Federico dirà ai Teatini, ma in quella scuola si sedette sui banchi sicuramente il fratello minore Riccardo: lo attesa una fotografia (sotto nel riquadro).

“Rimini è una dimensione della memoria” diceva Federico Fellini della città dove nacque il 20 gennaio di un secolo fa. “Un pastrocchio confuso, pauroso, tenero, con questo grande respiro, questo vuoto aperto del mare”. Una città che il regista ha salutato nel 1939 per inseguire a Roma il sogno del cinema, ma senza mai andarsene via completamente. E ritornando spesso, cinematograficamente, tra il Politeama, don e suore capellone e quei banchi di scuola.