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Le conseguenze funeste del matriarcato

Jenůfa, terzo atto - Ph Fabrizio Sansoni

Con Jenůfa firmata da Claus Guth si è conclusa al Teatro dell’Opera di Roma la trilogia dedicata a Leǒš Janáček 

ROMA, 5 maggio 2024 – Nel catalogo operistico di Leǒš Janáček, dove quasi sempre il titolo è riconducibile a una figura femminile, seppure sotto sembianze animali come nel caso della Volpe astuta o di un’avventuriera pluricentenaria come per L’affare Makropulos, la posizione di massimo rilievo è occupata da Jenůfa (1904). Non rappresenta, infatti, soltanto il suo lavoro più noto ed eseguito, ma propone uno scontro ravvicinato tra due donne differenti per anagrafe e mentalità: una giovane protagonista, che crede nella supremazia dell’amore, e la madre adottiva, che vorrebbe evitare alla figlia di commettere i suoi stessi errori stringendo un legame sbagliato. Anche a costo di macchiarsi d’un orribile delitto come l’infanticidio.

Cornelia Beskow (Jenůfa) e Charles Workman (Laca) – Ph Fabrizio Sansoni

Al Teatro dell’Opera di Roma questo capolavoro ha concluso una trilogia – realizzata in coproduzione con il Covent Garden di Londra – dedicata al compositore moravo, replicando il successo ottenuto due anni fa con Kát’a Kabanová e la scorsa stagione con Da una casa di morti. Lo spettacolo firmato da Claus Guth si addentra, come è solito fare questo regista, nei più contraddittorî labirinti mentali, ma – a dispetto di una costruzione estremamente cerebrale – riesce a valorizzare comunque le corde emotive che permeano l’opera. Michael Levine, abituale collaboratore di Guth, fin dal primo atto configura una scatola scenica – tenue scacchiera di linee geometriche – dove i personaggi danno l’idea di essere imprigionati. Si sente aleggiare la minaccia di un conflitto imminente (il mulino previsto dal libretto è sostituito da una sorta di fabbrica-dormitorio, da cui fuoriescono operai trasformati in futuri soldati), enfatizzato dalle stilizzate silhouette femminili, rese attraverso costumi minimalisti a firma di Gesine Völlm, che sembrano evocare un primo novecento concettuale. Mai didascalico, tuttavia. Nel secondo atto, invece, la casa dove la madre tiene rinchiusa la figliastra per nasconderne la gravidanza fuori del matrimonio è formata da un’intelaiatura metallica – una sorta di prigione – su cui si appoggia un gigantesco corvo antropomorfizzato, segno tangibile delle inquietudini dell’inconscio. Mentre nell’atto conclusivo, quello del matrimonio, c’è solo un tavolo senza stoviglie: presagio di una festa che non verrà celebrata. Se a questa regia manca qualcosa, è semmai l’eco di quei fremiti della natura che per Janáček non erano una semplice cornice decorativa, ma rivestivano un’importanza fondamentale: evocativa, estetica, drammaturgica.

Alla guida dell’orchestra romana, il direttore slovacco Juraj Valčuha – del tutto a suo agio con un autore cui lo legano una consonanza geografica e un’abituale frequentazione – ha accuratamente valorizzato la rigorosa scansione ritmica della musica, puntando soprattutto sugli aspetti coloristici ed esaltandone l’inesauribile ricchezza timbrica. Anche il cast ha mostrato una forte empatia con la poetica di Janáček, a cominciare dall’espressiva protagonista Cornelia Beskow, di voce sonora e sempre sicura, che ha restituito tutte le sfaccettature del personaggio: la sua Jenůfa è decisa, combattiva, talvolta anche manesca; poi dolorosamente prostrata quando scopre la morte del figlioletto; comunque generosa e – solo alla fine di un percorso altalenante e sofferto – capace di perdono.

Le maggiori attenzioni erano però rivolte verso una star come Karita Mattila: un tempo interprete del personaggio di Jenůfa e adesso, come hanno fatto altri soprani, passata al ruolo dell’austera madre-sagrestana. Da veterana di gran classe ha privilegiato l’eleganza dell’emissione, facendo affiorare il suo atroce tormento interiore, senza mai ricorrere a sottolineature plateali. È sufficiente la sua straziante uscita di scena, mentre il sindaco la conduce in prigione al termine del dramma, a fornire la misura dei suoi rimorsi.

Un’ideale seconda giovinezza è anche quella di Charles Workman, che, lasciati ormai alle spalle i suoi trascorsi rossiniani, oggi si è concentrato – con miglior profitto – nel repertorio del primo novecento, e qui ha interpretato con efficacia le ombrosità e le disperazioni di Laca. Sicuro e convincente pure l’altro tenore, anche lui americano, Robert Watson, nel manifestare l’egoismo infantile e la tracotanza – frutto forse d’insicurezza – del fratellastro Števa. Di apprezzabile carisma scenico e solidità vocale Manuela Custer, nel ruolo della nonna: è lei, del resto, la vera matriarca secondo questa lettura registica. Svettante per solidità di emissione il baritono David Stout, nel panni del capomastro. Tra gli altri da citare almeno Mariam Suleiman, il pastorello en travesti, ricondotto però da Guth alla sua essenza femminile. Una scelta coerente, d’altronde, rispetto all’importanza che Janáček attribuiva alle donne. Era lui a scrivere in prima persona i libretti delle sue opere, adattando lavori preesistenti. E anche per Jenůfa era partito da un dramma, La sua figliastra, scritto da Gabriela Preissová: non a caso, ancora una giovane donna.

Giulia  Vannoni