Le carte segrete di Scolca

    Due antiche storie della presenza olivetana in Santa Maria di Scolca a Rimini, sono state edite dalla cesenate Badia benedettina di Santa Maria del Monte. Le hanno composte Gasparo Rasi (1630) e padre Giacinto Martinelli (post 1777). Il volume è curato da Andrea Donati e Gian Ludovico Masetti Zannini (che illustra pure l’inventario della biblioteca di Scolca).
    Gasparo Rasi, “avvocato primario” del monastero, aveva grande stima di sé (essendo cittadino nobile), e nessuna verso chi prima di lui si era occupato delle vicende dell’abbazia. Non cita infatti né il padre olivetano Secondo Lancellotti (1583-1643) né il riminese Cesare Clementini (1561-1624), autore del Raccolto istorico (in due tomi, 1617 e 1627).
    Lancellotti a Scolca è maestro dei novizi. Lo ha chiamato l’abate Cipriano Pavoni (1579-1627), nato dai nobili riminesi Alessandro ed Elisabetta Cima. Un altro loro figlio, Pietro, diviene segretario di Paolo V. Da cui ottiene per Cipriano la nomina a vescovo di Rimini (1619). Cipriano Pavoni spinge Lancellotti a comporre le Historiae Olivetanae edite a Venezia nel 1623 assieme ad un altro suo testo che lo rende famoso, Hoggidì, overo il mondo non peggiore né più calamitoso del passato (ripubblicato nel 1636). Dove spiega che nulla vi è di nuovo sotto il sole, ed è assurdo farsi lodatori del tempo passato.
    Donati osserva che gli scritti di Lancellotti, “definito un ’chierico vagante della cultura’, hanno assunto un indiscutibile valore storico”. Di “chierico vagante della cultura” (come dichiarato in nota) si legge in Anatomie secentesche di Ezio Raimondi. Le cui parole, nel contesto originale, però hanno un significato opposto. Raimondi precisa che “il credito da attribuire alla battaglia culturale del Lancellotti non può essere molto alto”, e lo paragona ad una “piazza chiassosa”.
    Rasi resta un autore poco studiato. Masetti Zannini tira le orecchie a “coloro, che hanno fatto intendere” di averlo consultato, dicendosi sicuro che se “l’avessero anche effettivamente letto e studiato, certi lavori […] sarebbero riusciti più utili”. Anche Pier Damiani è molto citato e poco letto. Nel 1069 Pietro Bennone gli dona vasti possedimenti (poi passati a Scolca) per l’abbazia di San Gregorio in Conca di Morciano da lui fondata nel 1061. Bennone è figlio di Benno, grande feudatario e uomo politico di Rimini. Pier Damiani compiange la morte di Benno (1061) in un carme, definendolo “padre della Patria, luce dell’Italia”.
    Il “padre della Patria” o della città (come scrissi su il Ponte del 12.06.1983), è il rappresentante della vita municipale che doveva vegliare alla difesa del Comune sotto il dominio della Chiesa. Una figura ben distinta dal conte, delegato pontificio od imperiale. Uomo giusto e pio, severo con gli oppositori ma dolce con gli indifesi, Benno è dato da Pier Damiani per ucciso nel corso di una “guerra”: “lui, per merito del quale fiorì la pace”.
    La morte di Benno è una pagina (chissà perché) trascurata dagli storici ufficiali, ma capace di illuminare fondamentali vicende cittadine dei “secoli bui”. Quando nasce il nome di Scolca (o Scolco). Derivato da un termine gotico, esso significa “posto di guardia”, e si offre quale segno del contesto militare e strategico del luogo. La chiesa di Scolca è eretta (1418) per volere di Carlo Malatesti nel posto “dove anticamente era il Vescovato di Scolca” (Martinelli, p. 236). Ha il titolo di Santa Maria Annunziata Nuova, per distinguerla dalla casa religiosa delle monache di Santa Maria Annunziata.
    L’origine gotica del nome di Scolca rimanda alla presenza imperiale nella Rimini del sec. XI, quando incontriamo il primo Malatesti, detto “Tedesco”, che non è frutto di “semplici fantasie”, come altrove si sostiene con scarsa prudenza. I suoi discendenti vanno e vengono tra Rimini e la Toscana attraverso l’Appennino. Che non “divide” (vedi p. 14), ma unisce: come Lorenzo Braccesi sostiene con fondamento.
    Padre Giacinto Martinelli (1711-1780) è solitamente ricordato soltanto per un “Elogio” funebre composto in suo onore da Aurelio Bertòla. Che era suo parente, e dopo la morte del padre (1768) dall’abate fu avviato giovinetto alla vita del chiostro. Affidatogli dal fratellastro, un vecchio scapolo libertino. L’abate Martinelli rassicurò con triste menzogna la madre di Aurelio, che il figliolo ”era animato da una vera vocazione”.
    L’opera composta da Martinelli è da lui definita “libro alfabetico”. Non è una guida archivistica (p. 6), ma la raccolta (di moderno impianto enciclopedico) di quanto può servire alla “storia di questo monastero” (p. 218). Rasi invece parte da una classificazione geografica, difficile da portare a termine (sono sue parole) per la “confusissima moltitudine delle scritture, ch’avrebbono voluto molti e molti mesi per ordinarle et vederle”. Ed anche per le sue “occupationi” personali.

    Antonio Montanari