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La vita procede per contagio

I vescovi Italiani hanno consegnato alla Chiesa e al paese intero gli Orientamenti per il prossimo decennio orientati ad affrontare quella che ormai viene chiamata l’emergenza educativa.
Il mestiere di genitore è il più difficile del mondo e non basta frequentare tutte le “scuole del mondo” per dire: “ora sono capace”… Proprio perché la vita, dono di Dio, contiene potenzialità infinite.
Non ci basta che i figli trovino semplicemente idiota lanciare sassi dal cavalcavia. Custodiamo il desiderio che sappiano perché i sassi lanciati dal cavalcavia sono lanciati contro loro stessi. Ci auguriamo anche che non solo non sfidino la vita, ma che non ne smarriscano il gusto.

Il sogno? Che siano felici
Abbiamo il sogno che i nostri figli trovino i motivi per mettere alla luce i loro figli. E perfino che siano così esagerati da convincere altri che ci si può affidare all’avventura i custodire un bambino.. La vita procede per contagio.
E che facciano tutto questo per lo stesso motivo per cui noi abbiamo scelto la vita: solo e soltanto per gioia. La vita, anche quando è esigente e terribile, accetta soltanto un simile vestito.Un figlio è legittimato nel suo esistere per il solo fatto di esistere: significa sapere di essere già stato pensato, guardato, amato fin nelle sue più piccole espressioni dal Dio della vita.
La vita è sempre determinata; non è mai sognata, immaginata. Dobbiamo lasciare cadere il bambino immaginato per accogliere il bambino reale. Non coincide mai, neanche nei momenti più propizi, perché subito dopo il bambino che abita nella mente prende il sopravvento. Così abbiamo i genitori che si dividono in varie categorie:
I genitori-che-vogliono-che-il-figlio faccia-quello-che fanno- loro.
I genitori-che-non-vogliono-assolutamente-che-il figlio-faccia-quello-che fanno-loro.
I genitori-che-vogliono-che-il figlio-faccia-quello-che-avrebbero-voluto fare-loro.
I genitori-che-non-vogliono-che il figlio-faccia-quello che-loro-non hanno-potuto-fare.
E inizia la sequenza dei volevo.
Volevo che tu fossi maschio e sei nata donna.
Volevo che tu mi dessi una ragione per vivere e ho trovato un peso in più.
Volevo che tu arrivassi (nascessi) dopo, quando la casa era pronta e il lavoro sicuro e soddisfacente.
Volevo che tu arrivassi prima, quando ero più giovane e un tantino più ottimista.
Volevo che tu mi consolassi, essendo migliore di tuo padre.
Volevo che tu mi mostrassi di non essere figlia/clone di tua madre.
Volevo che tu andassi avanti a studiare, per non faticare come me.
Volevo che tu prendessi la laurea, per essere degno di me.
Volevo che tu non portassi il marchio dei mie difetti.
Volevo che tu crescessi come volevo io per il tuo bene.
Permesso di esistere per sé e non per i genitori. Permesso di esistere con i propri limiti e i propri talenti che ci fanno essere ciò che siamo. Permesso di esistere che significa creare un legame che dice: proprio te, così come sei, volevo. Non si attrezza un bambino alla vita dicendogli: “Tu sei quello che io non sono stato”. E nemmeno dicendogli: “devi essere all’altezza del nome che porti”. Un figlio che riceve simili mandati, anche in buona fede, è attrezzato soltanto per il risentimento.
Non esiste il bambino, ma sempre e solo quel bambino. Dentro il limite in cui prende vita la vita, c’è sempre una bellezza, per quanto nascosta. E questo non solo per ciò che è fisico, corporeo nel bambino, ma anche nelle sue condizioni di vita, nell’essere nato in questa famiglia e non in un’altra.

Non ho paura a dirti di no
Il bambino a cui nessuno ha mai detto un no deciso e irrevocabile, è un bambino che non ha strategie per accostarsi alla vita se non il volere e volere, senza mediazioni. Chi si trova di fronte a un muro invalicabile sa che gli conviene cercare altre strade per raggiungere la sua meta, anche se sono più faticose, meno dirette, meno evidenti: si farà delle strategie, mezzi indispensabili per imparare a vivere la vita. Ma se il muro è solo apparentemente invalicabile, se prendendolo a calci e testate, se a suon di capricci e disperazioni messe in scena, esso crolla, vien meno l’efficacia di ogni strategia: occorre soltanto abbattere il muro a qualunque prezzo.
La realtà non diviene qualcosa a cui riferirsi, ma qualcosa da abbattere. E così il piccolo io che prende a calci la realtà non incontra niente e nessuno se non i suoi bisogni e diventa spaventosamente solo, impegnato in un unico eterno duello: o gli altri si adeguano a me o non esisto.

Amare i figli con cuore di padre
Il padre è colui che impone al figlio un sacrificio, che sottopone il figlio alla prova. La prova consiste nel chiedere al figlio di affrontare il dolore e la fatica delle rinunce necessarie per poter crescere bene ed essere davvero contento di sè. In questo modo egli aiuta il figlio ad accettare la legge della vita, esperienza che farà di lui una persona diversa e migliore.
Il codice materno tende a proteggere il figlio dal dolore e dalle fatiche della vita, il codice paterno tende a incoraggiare il figlio ad accettarle e superarle, a non nascondersi, a non evitarle, a non averne paura.
Il padre è colui che chiede al figlio di rinunciare all’onnipotenza del desiderio: accettando che non tutto si può avere, ma è possibile vivere accettando il limite, la misura, e che si può essere felici senza avere grandi cose, accettando che non si può far diventare vero ciò che piace, né far girare il mondo come dico io.
Il discredito culturale della sensibilità educativa maschile ha eliminato l’esperienza della prova, ma ha reso più deboli i figli, incapaci di reggere la vita con le sue inevitabili difficoltà, incapaci di confrontarsi sul piano della realtà.
Padre è colui che crede in qualcosa, crede che la vita sia qualcosa che merita il sacrificio, l’impegno, la rinuncia al principio del piacere.La sofferenza che il padre sollecita o impone non è motivata dalla crudeltà, al contrario egli capisce la fatica del figlio. Egli è più capace della madre di contenere il dispiacere per la sofferenza del figlio, il padre sa che da questa fatica buona nascerà una persona migliore (il figlio). Si rischia altrimenti di crescere persone eternamente in fuga, costretti a barare con sè stessi e con gli altri e poco per volta si può giungere a detestare la realtà semplicemente perché non si lascia sottomettere dalla pretesa che le cose vadano come dico io adattandosi alle nostre condizioni. Il padre chiede al figlio di credere in una promessa (implicita e non espressa): se farai in questo modo, se farai ciò che ti chiedo, sarai più felice, ci sarà più soddisfazione anche per te. È l’affidarsi alle parole del padre che salva il figlio. Il padre d’altro canto non può promettere di attraversare il dolore se non in nome di una certezza: che in esso non c’è il male o la morte, che non rende più infelici.
Gesù ci conduce al luogo del “torchio delle olive”, cioè al Getsemani. Il luogo dove Gesù soffre ha un significato simbolico già nel nome: torchiare è un azione dolorosa, a volte tremenda, apparentemente distruttiva… Ma tutti noi sappiamo che è un’azione per qualcosa di prezioso: l’olio buono scende solo dalla torchiatura; non esiste olio buono senza la torchiatura, mai fine a sè stessa. Dobbiamo essergli grati, perché egli ci ha mostrato che nel vivere la sofferenza e la morte secondo Gesù sono comprese paura e angoscia, desiderio di fuggire, impreparazione e rifiuto della solitudine. Eppure benedetto torchio, attraverso cui passa l’olio! Non la sofferenza per la sofferenza, il dolore per il dolore ma tutto per la vita.

Cesare Giorgetti