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La sede di presidenza del Popolo di Dio radunato

Vista, udito, tatto, odorato: la simbologia liturgica non si limita a “parlare” ai sensi esterni, ma va anche più in profondità nel rendere visibile l’agire di Dio. Giunge infatti a stimolare anche i cosiddetti “sensi interni”, posti sulla corteccia celebrale sensoria, adibiti, tra l’altro, alla percezione dello spazio. Lo spazio liturgico non è casuale, ma tende a rispecchiare il triplice agire di Cristo nella liturgia: presiedere il popolo radunato come Buon Pastore; annunciare la salvezza e insegnare i segreti del Regno come Maestro; offrirsi in sacrificio a Dio e ai fratelli come Sacerdote.

Durante la Messa vediamo perciò il Signore condurre il suo popolo in tre luoghi distinti: anzi tutto, raduna il gregge disperso e «senza pastore» salendo alla sede di presidenza, segno dei luoghi in cui Gesù guidava le folle, pregava e insegnava con autorità le “cose di Dio”; poi lo conduce ad ascoltare la sua Parola presso l’ambone, segno di tutti quei luoghi in cui Gesù annunciava il Regno di Dio (la riva del lago, la strada, la sinagoga, la piazza); infine, lo porta nel Cenacolo e sul Golgota, attorno alla mensa-altare, su cui si offre in cibo. Tre luoghi ben distinti (tanto che non dovrebbero mai essere in asse) chiamati poli liturgici.

La liturgia eucaristica prende avvio dal primo polo, la sede di presidenza, a cui il sacerdote giunge dalla processione d’ingresso e dopo l’incensazione della croce e dell’altare. Perché? Perché vi siede solo il celebrante? Perché la lascia e vi ritorna durante la Messa?
Fin dal II secolo, la sede di presidenza (da prae-esse=essere posto davanti a) mostra il compito del sacerdote di presiedere l’assemblea eucaristica e di guidare la preghiera (Ordo Generale Messa Romana, 310). Compito che egli ha in virtù del sacerdozio ministeriale, che lo abilita a celebrare in persona Christi, Capo e Pastore, e a pregare a nome della Chiesa e del popolo radunato (Sacrosanctum Concilium, 33). Un compito che è chiamato a svolgere «con dignità e umiltà e, nel modo di comportarsi e di pronunziare le parole divine, deve far percepire ai fedeli la presenza viva di Cristo» (OGMR, 93), poiché – ricordiamolo sempre! – è Cristo il primo Celebrante, che presiede in modo invisibile (CCC 1348).

La sedia della presidenza, quindi, non è una sedia qualsiasi!
Segno della regalità di Cristo e del suo insegnamento trasmesso agli apostoli, fin dai primi secoli è fissa e al centro della chiesa; le sedie degli Apostoli sono sempre state oggetto di venerazione (come tutt’oggi lo è la cattedra di San Pietro nell’omonima basilica). Quella del vescovo è chiamata cattedra (da cui prende nome l’intero edificio), perché segno dell’insegnamento degli apostoli, e da cui prende significato ogni sede di presidenza nelle diverse chiese della Diocesi.
Da essa inizia e termina l’Eucaristia, vengono pronunciate le “monizioni” e le “orazioni presidenziali” (OGMR, 30-31), cioè le preghiere proprie del sacerdote rivolte a Dio a nome di tutto il popolo (colletta, sulle offerte, dopo la comunione); da essa il sacerdote presiede la liturgia della Parola, pronuncia l’omelia, guida il popolo nella professione di fede e nella preghiera dei fedeli; purifica le sue mani prima di pronunciare la preghiera eucaristica, benedice e congeda l’assemblea.

Pertanto, essa deve essere unica e ben visibile, ma senza confondersi con un seggio onorifico, poiché colui che vi siede è ministro, cioè servo, secondo il monito evangelico: «chi governa è colui che serve» (Lc 22,26). Al proposito Sant’Agostino insegna che «è giusto che durante l’assemblea liturgica coloro che ne sono preposti alla guida siedano più in alto, affinché attraverso il segno stesso della sede si distinguano dagli altri e si manifesti chiaramente il loro ruolo di servizio e non certo perché dalla sede spadroneggino gonfiandosi di superbia» (Discorsi, 91,5).

Il compito di presiedere l’assemblea e di guidare la preghiera è gravido di conseguenze. Anzi tutto, richiede che il celebrante sia ben preparato (conosca i testi, i segni, i gesti e le norme liturgiche e, soprattutto, lo spirito che le animano, per non cadere nel disprezzo di esse o, all’opposto, nel rubricismo); i ministri laici, perciò, devono accogliere la sua paterna autorevolezza nello svolgimento del loro servizio (OGMR, 111); è sempre vero, comunque, che il presidente della celebrazione è tanto più autorevole quanto più è soggetto alla presidenza di Cristo, espressa dalla Tradizione liturgica, raccolta nel Messale. In terzo luogo, sia il celebrante che l’assemblea devono sapere cosa celebrano e attraverso quali segni, altrimenti, come accade nel corpo, quando le membra non riescono a rispondere alla testa, questa è costretta a “trascinarle” a forza (a buon intenditore poche parole…).

Infine, il legame e l’affiatamento tra il celebrante e l’assemblea a livello liturgico, è spesso fonte del legame e dell’affiatamento che si instaura a livello pastorale tra il parroco e il suo popolo, per il fatto che l’Eucaristia è fonte di tutta la vita cristiana (SC, 10): anche di quella della parrocchia.
L’applicatio ad vitam è oggi molto semplice: salireste su di un autobus in corsa senza conducente? E il conducente guiderebbe un bus i cui passeggeri non sanno dove andare?

Elisabetta Casadei