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La scomparsa della speranza

Suor Angelica, il soprano Corinne Winters (Angelica), Marie-Nicole Lemieux (zia principessa) - Ph Fabrizio Sansoni

A Roma nel terzo pannello del Trittico “ricomposto” Suor Angelica abbinata al Prigioniero di Dallapiccola

ROMA, 23 aprile 2025 – A raccordare Suor Angelica e Il prigioniero, nel terzo e ultimo pannello del “Trittico ricomposto” appena andato in scena al Teatro dell’Opera di Roma (i tasselli precedenti avevano accoppiato Il tabarro con Bartók e Gianni Schicchi con Ravel), è il concetto di crudeltà. Almeno nello spettacolo di Calixto Bieito. Il regista catalano mette a nudo in modo inequivocabile come i due titoli, nati entrambi dopo devastanti conflitti mondiali (l’opera di Puccini è del 1918, quella di Dallapiccola del 1950), siano fondati su quella ferocia umana che non lascia spazio alla speranza. E il cortocircuito scatta sia con quanto sta accadendo oggi nel contesto internazionale, che non incoraggia all’ottimismo, sia con il contrasto – su cui in tanti stanno interrogandosi in questi giorni – della parola “misericordia” , forse il più importante lascito morale di papa Francesco. Del resto, compito del teatro è portare sulla scena le contraddizioni, anche dolorose.

Il baritono Mattia Olivieri protagonista del Prigioniero – Ph Fabrizio Sansoni

Bieito concepisce una Suor Angelica – l’opera che ha per protagonista la figura forse più dolente dell’intera galleria femminile pucciniana – lontana tanto dalle modalità zuccherose degli spettacoli tradizionali quanto da certe gratuite provocazioni. Le dinamiche che s’innescano tra le suore recluse in monastero (e che spesso si trovano lì non per scelta, ma per costrizione) qui sono immediatamente riconducibili all’assenza del maschio; anche se a un tratto, in una visione onirica, si materializza la figura di un uomo insanguinato: lo stesso cantante che sarà protagonista del Prigioniero, vittima più esplicita – seppure altrettanto devastata – delle monache nel convento.

Gli atteggiamenti delle suore sono colti come inquietanti istantanee, dalla trattenuta compostezza della protagonista ai ritratti sbalzati di donne esagitate, che si aggrovigliano in un crescendo di comportamenti disturbati: culminano nel personaggio della badessa, vero e proprio concentrato di autolesionismo e nevrosi, una figura più da manicomio che da convento. Al centro della scatola scenica di Anna Kirsch (le bianche tuniche e le cuffie sono invece firmate da Ingo Krügler, come gli altri abiti minimalisti dell’intero dittico) c’è un lussureggiante giardino, cui le monache sono sostanzialmente estranee. Se ne approprierà invece la zia principessa, che intravvede nelle piante velenose il veicolo di morte della nipote.

Impressionante come Suor Angelica il soprano Corinne Winters: una protagonista in grado di comunicare con pochi gesti un’angoscia sempre dignitosa – straziante l’immagine quando dissotterra e strige al cuore la tutina rossa di un neonato – e, soprattutto, capace di trascolorare con estrema duttilità vocale dal canto di conversazione pucciniano alla repentina austerità della musica sacra, che innerva l’intera partitura. Peccato che Marie-Nicole Lemieux, nei panni della zia principessa, non avesse la stessa caratura per qualche disomogeneità nell’emissione, rischiando così di disinnescare lo scontro tra le due donne: una delle più straordinarie pagine mai scritte da Puccini. Fra le altre suore, da ricordare Irene Savignano (la zelatrice) per il notevole colore mezzosopranile e Annunziata Vestri, per le qualità di attrice con cui delinea una forsennata badessa.

A rendere percepibile il legante – almeno ideale – tra la partitura di Puccini e quella di Dallapiccola ha provveduto dal podio Michele Mariotti, ideatore del progetto “Trittico ricomposto”. Il suo lavoro con l’Orchestra del Teatro dell’Opera era mirato innanzi tutto a una sapiente calibratura delle sonorità: valorizzando le innumerevoli sfumature pucciniane, dalle più intime alle più solenni (come le onnipresenti reminiscenze di musica sacra), e stemperando invece le più taglienti accensioni del Prigioniero. Senza però farne perdere di vista i risvolti drammatici e, anzi, imprimendogli una morbidezza che si è rivelata provvidenziale per i mezzi un po’ pallidi del baritono protagonista.

Nel Prigioniero – dove, al contrario di Suor Angelica, l’approdo alla tragedia non è progressivo, ma subito esplicito – la conclusione è infatti ancor più crudele, perché la morte sopravviene quando sembrerebbe d’intravvedere la tanto agognata libertà. Affiancato da una mater dolorosa (il soprano Ángeles Blancas sempre a suo agio con una vocalità espressionista e fortemente drammatica) e da un ambiguo carceriere (il tenore John Daszak, mellifluo e crudele), il Prigioniero di Mattia Olivieri resta appollaiato, nell’impaginazione visiva di Bieito, su un groviglio di radici: unico elemento scenico insieme a un monitor con il suo volto e che servirà alla madre per siglarne la morte, chiudendone gli occhi. Il baritono ha costruito il personaggio puntando su una salda musicalità, con cui incarna un protagonista fragile e disorientato, dove l’angoscia convive con sprazzi d’illusione. Sensazioni speculari allo spaesamento che porterà Suor Angelica al suicidio, come unica possibilità in assenza di vie d’uscita.

Giulia  Vannoni