La storia della giovane riminese Eleonora Paolizzi, psicologa e ricercatrice presso uno dei centri d’eccellenza a livello mondiale di studi sull’autismo. Il racconto in prima persona tra lavoro, vita americana e rapporto con l’Italia
La terra delle opportunità. Così sono conosciuti gli Stati Uniti, che nonostante evidenti criticità e inevitabili difetti, rimangono un luogo che suscita forte attrazione su tanti europei e italiani, soprattutto giovani, in cerca di un percorso di realizzazione personale e professionale sempre più difficile da porre in essere in terra natia. Un desiderio che, con coraggio e determinazione, è possibile realizzare.
Lo dimostra la storia di Eleonora Paolizzi (nelle foto), 28enne riminese che oggi vive a Philadelphia, impegnata come psicologa clinica e ricercatrice presso l’AJ Drexel Autism Institute della Drexel University, centro d’eccellenza a livello internazionale nel campo della ricerca sull’autismo.
Un’avventura raccontata in prima persona.
Eleonora, partiamo dall’inizio. Com’è nato il desiderio di andare negli USA?
“Tutto è cominciato nel 2012, durante un viaggio di studio: è lì che mi sono innamorata di New York e della sua energia travolgente, in quel momento vivere negli Stati Uniti è diventato uno dei miei obiettivi. Quel viaggio ha acceso una scintilla, un desiderio che si è rafforzato nel tempo, assieme alle mie aspirazioni professionali”.
Da lì è cominciato il percorso che ha permesso di realizzare questo desiderio. Com’è andata?
“Dopo due lauree conseguite con lode in triennale a Padova e in magistrale a Trento, e dopo un Master sull’autismo, ho vinto una borsa di Dottorato di Ricerca in Scienze cognitive presso l’Università di Trento che mi ha permesso di svolgere un periodo di sei mesi presso l’AJ Drexel Autism Institute di Philadelphia. Quest’opportunità si è aperta anche grazie al supporto della professoressa e prorettrice dell’Università di Trento Paola Venuti, una dei massimi esperti italiani di autismo, che mi ha sostenuta da sempre nella mia crescita professionale e personale. Dopo aver conseguito il dottorato, si è presentata la possibilità di lavorare qua a Philadelphia: il risultato di tanto impegno e la giusta dose di fortuna. Nella vita servono entrambi!”.
Di cosa si occupa oggi?
“Sono ricercatrice proprio presso l’AJ Drexel Autism Institute della Drexel University, un centro di eccellenza a livello mondiale per la ricerca sull’autismo. Nello specifico, la mia attività di ricerca si concentra sull’intero arco di vita, dall’infanzia fino all’età adulta e all’invecchiamento, con un’attenzione particolare sia agli aspetti diagnostici sia agli interventi. Collaboro direttamente con persone autistiche, con l’obiettivo di promuovere una ricerca partecipativa, significativa e con un impatto concreto sulla qualità della vita. Ho la fortuna di confrontarmi quotidianamente con figure di riferimento a livello internazionale, come Giacomo Vivanti, mio supervisore e vera e propria ‘rockstar’ nel campo della ricerca sull’autismo. È ancora incredibile per me poter apprendere ogni giorno da lui: la sua ricerca e il suo impegno hanno avuto un impatto concreto sulla vita di milioni di persone autistiche in tutto il mondo. Collaboro con numerosi altri esperti e ricercatori straordinari, da cui imparo ogni giorno: la mia mentore Elisabeth Sheridan, professoressa e clinica il cui lavoro è riconosciuto a livello internazionale e Diana Robins, direttrice dell’AJ Drexel Autism Institute e ideatrice dell’M-CHAT, uno strumento di screening precoce adottato a livello globale da pediatri e professionisti della salute”.
“Gli Stati Uniti offrono tanto, soprattutto dal punto di vista professionale: ambiente accademico stimolante, aperto alla contaminazione intellettuale e con il valore aggiunto della pluralità culturale. Ma non è tutto oro. A Philadelphia c’è una situazione sociale fatta di drammatiche diseguaglianze e criticità evidenti, in particolare in termini di sicurezza”
Non solo lavoro. Com’è la vita negli Stati Uniti? Si è ambientata o ha incontrato delle difficoltà?
“È una domanda che arriva in un momento cruciale, in cui mi sto chiedendo anch’io: ‘ Should I stay or should I go?’ (dovrei restare o andarmene?), come nella famosa canzone dei The Clash. E se devo andare, dove? Gli Stati Uniti offrono moltissimo: l’ambiente accademico è stimolante, aperto alla contaminazione intellettuale, le opportunità sono tante e gli stipendi sono più commisurati ai ruoli che si hanno. La pluralità culturale è un valore aggiunto enorme, così come il riconoscimento per il lavoro che si fa. Ma non è tutto oro. Vivo a Philadelphia, una città con criticità evidenti, soprattutto in termini di sicurezza. Nulla a che vedere con Rimini, dove, pur con le dovute accortezze, mi sento generalmente al sicuro”.
Un confronto con l’Italia?
“Tolto il lavoro, che è il motivo per cui sono qui, la qualità della vita è diversa rispetto all’Italia: il costo della vita è alto, la situazione sociale di diseguaglianza è drammatica ed è triste quanto si diventi meno sensibili all’argomento a causa della continua esposizione. C’è un senso diffuso di precarietà, soprattutto in ricerca. E poi ci sono le piccole cose che pesano: il gelato non ha lo stesso sapore. Per fortuna c’è la piadina del figlio della Lella a New York, una piccola consolazione a solo un’ora di distanza!”.
Un po’ di Rimini, quindi, rimane presente nella sua vita anche dall’altra parte del mondo. Che rapporto mantiene con la sua città d’origine e con la Romagna?
“Rimini è casa, il luogo dove tornare, dove c’è la mia famiglia ed è il crocevia per me e le mie amiche, tutte un po’ ‘nomadi’. È il posto dove la mia mente si distende: una pedalata al porto, una cena di pesce alla Darsena, un pomeriggio al mare. Una città dinamica, in evoluzione, con una qualità della vita sottovalutata. Certo, ci sono aspetti critici, non ho intenzione di romanticizzare la situazione italiana, che soprattutto nel mio settore è preoccupante e alla quale sarebbe necessario riservare una maggiore attenzione, non solo a livello mediatico ma anche con azioni concrete. Spero di riuscire a tornare. L’Italia non è sempre la dolce vita dei cliché, ma ha qualcosa che, altrove, semplicemente manca, a partire dalle persone che amo”.