La festa di un “sì” sulle macerie

    Ha una memoriadi ferro il signor Alfredo, classe 1919, a cui piace riassumere così la propria vita.

    Ho lavorato tanto e ho lottato sempre contro la miseria. Sono nato a Passano da una famiglia di contadini, il babbo era mezzadro del cavalier Gualandi, padrone di tredici poderi. Il mio babbo, invece dei poderi, aveva tredici figli, nove maschi e quattro femmine, tutti cresciuti su quell’unica terra.
    Dopo la terza elementare – di più non si poteva perché le altre classi non esistevano – ciascuno di noi cominciava a lavorare in campagna e allora si lavorava anche diciotto o diciannove ore al giorno, “da buio a buio” (dalla mattina prima dell’alba fino a quando il sole era già tramontato). Dopo cena, non c’era stanchezza che tenesse, recitavamo sempre rosario e litanie. Il mio babbo che era analfabeta, le aveva imparate a memoria in latino e anch’io le so ancora così. Quando c’erano i lavori grossi come la mietitura, venivano ad aiutarci i contadini degli altri poderi di Gualandi e la sera ci si fermava tutti sull’aia a dire qualche preghiera per i morti, poi si entrava in casa.
    La mamma era l’azdora e ne aveva da fare! Il babbo era il capo, senza di lui non si muoveva una foglia. Però andavamo d’accordo, eravamo una famiglia unita. Vuoi che non ci fosse qualche battibecco anche fra i miei? Ma la sera ci si riuniva a tavola e tutto era dimenticato: il matrimonio era una cosa sacra!

    A proposito di matrimonio, a quei tempi come avveniva l’incontro fra ragazzi e ragazze?
    Eh… ci si vedeva in chiesa. Andavamo a messa anche nei paesi vicini, specialmente in occasione delle feste patronali. Arrivavamo a piedi e così potevamo fare degli incontri anche strada facendo. Poi c’erano le benedizioni al pomeriggio e le veglie nelle stalle, dove le ragazze non potevano stare senza far niente, le loro mani dovevano essere occupate, così facevano la calzetta.

    Sua moglie come l’ha incontrata?
    La Giuseppina, che tutti hanno sempre chiamato Peppa, l’avevo adocchiata un giorno mentre raccoglieva le erbe per la piada nella zona di Taverna dove abitava. Però l’occasione per un vero incontro è stata una processione durante il mese di maggio. Il parroco di Coriano aveva stabilito che le parrocchie del vicariato andassero a turno in processione al centro maggiore. Quando è toccato a noi di Passano, in testa abbiamo messo sei ragazze che portavano l’immagine di Maria Bambina seguita da due ali di giovani. Veniva poi lo stendardo di san Giovanni e quindi la bandiera italiana. La gente, accorsa anche dagli altri paesi, procedeva ordinata in fila, pregando e cantando.
    Quella volta la bandiera l’ho presa io. Di fianco a me, con altre donne, c’era proprio la Peppa! Allora dal centro, piano piano, mi sono spostato, la bandiera tutta pendente da una parte, e sono riuscito a scambiare qualche parola. Le ho chiesto se voleva fare la strada di ritorno insieme a me, lei ha risposto di sì. Più tardi, tornando a Passano, le ho fatto la dichiarazione e lei ha accettato di essere la mia ragazza. Era il 1938.
    Ci siamo fidanzati “in casa” dopo un mese e non ci siamo lasciati più. Dopo le benedizioni domenicali, la sera, la riaccompagnavo a casa e sua mamma ogni volta brontolava: “Burdell, la s’è slonga la streda?” Perché noi per strada chiacchieravamo. Mia suocera aveva sette figlie femmine da maritare e le sorvegliava tutte… ma loro ubbidivano, eccome!

    Quando è scoppiata la guerra sono stato destinato in Sardegna come militare di leva. Mi è andata meglio che ai miei fratelli, soprattutto a quello che è tornato dalla Russia con i piedi congelati… Nel ’41, ottenuta una licenza, di corsa la sera ero già a casa della Peppa. La sua mamma fa: “Guarda, Peppa, che stasera tocca a te fare la piada”. Non c’è stato verso, ha dovuto farla, quella piada!
    Nel dicembre del ’44 ho avuto la licenza in attesa di congedo. Sbarcato, per tornare a casa ho trovato solo mezzi di fortuna, per lo più camion militari. Da tempo non avevo notizie dei miei, in Sardegna avevo sentito alla radio delle battaglie che si erano svolte qui, ma di loro niente. Man mano che mi avvicinavo vedevo macerie e distruzione e la mia emozione cresceva. La mia casa non c’era più, distrutta! Uno mi ha riconosciuto e mi ha detto che i miei erano salvi, nella casa di un podere vicino.
    Quando sono arrivato, vestito da soldato, stanco del viaggio e dopo anni di lontananza, mia mamma che era nell’aia, al buio mi ha “annusato” da lontano e ha incominciato a gridare: “Fredo, Fredo!” Si muoveva in tondo come fanno le galline quando hanno la malattia del collo storto. Appena le sono stato vicino ha cercato di sollevarmi fra le braccia, lei che era diventata così piccina. Una commozione… Poi si è inginocchiata e, alzando le braccia al cielo, ha gridato: “Grazie, Dio, anche questo mi è tornato vivo!” Era la vigilia di Natale. È seguito un periodo difficile, ma ho deciso lo stesso di sposarmi. Sarei andato ad abitare nella casa che era stata rifatta. Per camera matrimoniale avremmo utilizzato l’ingresso, chiuso con una tenda.

    Il giorno del matrimonio, prima della cerimonia, ho lavorato nei campi e lei ha fatto l’erba per i conigli. Per l’occasione ho messo l’unico vestito buono, quello di prima della guerra, e la Peppa un abito blu a fiorellini, prestato da una sorella. Nella stessa cerimonia si sposava anche la Gina, un’altra sorella di mia moglie. La chiesa di Taverna era piena di gente entrata lì per curiosità: due matrimoni in una volta dopo tanti funerali… A metà cerimonia, quando ci eravamo già scambiati le vere – che poi erano due anelli delle tende, perché di più non si poteva – ecco entrare il sacrestano con un fonogramma che arrivava dalla diocesi di Rimini. Il prete interrompe la cerimonia, legge, scende gli scalini, ci abbraccia e annuncia con voce forte: “A Milano e Torino la Germania ha deposto le armi, è finita la guerra!”. In chiesa un frullìo, un mormorio, applausi, grida… chi pensava al marito, chi al figlio, chi al fidanzato ancora lontani. E le campane! Cominciano a suonare a distesa le campane da tutti i paesi vicini e si sentivano anche quelle di Rimini, perché tra noi e la città non c’erano più le case. Una festa…! Erano circa le dieci e mezza del 25 aprile 1945.
    Ecco, questa è stata la festa più grande che potevamo avere. E non importa se il nostro pranzo di nozze è stato un piatto di maccheroni preparato dalla mia mamma che li era andati a comperare a Morciano da Ghigi.

    Luciana Ricci
    La storia di Alfredo ed altre storie sono raccontate nel volume “Sorridono le nostre rughe”, edito da il Ponte