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La crisi e i furbetti

Già nel 2009, in un convegno organizzato a Rimini dalle Banche di Credito Cooperativo, il prof. Stefano Zamagni affermava che quella che stiamo attraversando è una crisi anche “antropologica”, con un disagio individuale e collettivo, una crescente sregolazione delle pulsioni, una chiusura individuale e un’indifferenza collettiva, tutti rattrappiti sul presente, nel disfacimento della cultura del dono e del sacrificio in vista del bene comune, con l’indebolimento dell’autorità e delle istituzioni. Una crisi difficile, lunga e dura da superare. Fra i colpiti anche tanti piccoli e medi imprenditori, gente che ha fatto crescere la sua azienda a poco a poco, che crea lavoro, col mutuo per il capannone ed uno per i macchinari, e che improvvisamente si sono ritrovati a non riuscire a garantire più il lavoro agli operai, a pagare le rate, a mantenere la famiglia.
Ma non manca, anzi purtroppo sembra proliferare, chi non vuole rischiare di perdere ciò che ha accumulato – azienda, risparmi, benessere – e chiude: non più un euro per investimenti, ricorso spregiudicato alla CIG, interruzione dei pagamenti, ricorso al concordato stragiudiziale o preventivo, di chiusura o di continuità. Il risultato è che lascia a casa gli operai e scarica sui creditori le sue difficoltà. Così ha salvato il proprio benessere (ciò che ha accantonato gli consente di vivere in tutta agiatezza) ed ha innescato, o diffuso, il fenomeno dei senza lavoro e dei mancati pagamenti, che mettono a repentaglio altri posti di lavoro ed altre aziende. Dov’è quella che viene chiamata “responsabilità sociale dell’azienda”? Con quale diritto, ciò che è stato accumulato anche col lavoro di tanti collaboratori, di enti, ecc. viene tolto dalla “circolazione” e chiuso nello steccato del proprio egoismo e del proprio nucleo familiare, a suo uso e consumo esclusivi?
Non dovrebbe esistere l’impresa povera e l’imprenditore ricco (significa che l’impresa è stata “spolpata” dai prelievi e consumi personali dell’imprenditore), ma impresa ed imprenditore che procedono con la stessa dinamica: l’imprenditore deve trarre dall’impresa le risorse per vivere, ma deve lasciare l’impresa in grado di affrontare anche i momenti difficili, deve cioè lasciarla patrimonializzata ed organizzata.
L’ impresa deve rimanere il fulcro dello sviluppo territoriale, deve sentire la responsabilità del suo agire e del suo divenire, deve essere al servizio non solo dell’imprenditore, ma anche di coloro che vi lavorano, dei clienti e fornitori: ma l’impresa è fatta di uomini e tutto dipende dalla qualità degli uomini.

Pierino Buda