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La Comunione al calice non sia un’eccezione

Io sono Tuo e tu sarai mia: ci stai?”. La comunione al calice è tutta qui. È alleanza eterna, patto indistruttibile, mutua appartenenza tra Dio e l’uomo, Vita con vita, Sangue con sangue.
Ma andiamo per gradi.

Per capire la Comunione al calice e non considerarla più come una complicazione superflua del rito (“tanto basta il pane!”), dovremmo recarci ad essa, processionalmente, tenendo sottobraccio il libro dell’Esodo e fissa, tra gli occhi, un’immagine: il gesto con cui Mosè, sceso dal monte, “spiegò” agli israeliti cosa voleva dire “fare alleanza” con il Signore. Incaricò i più giovani a offrire animali in olocausto e di preparare la carne da mangiare insieme (sacrifici di comunione); inoltre, fece raccogliere il sangue degli animali in catini; sangue, che per ogni israelita voleva dire solo una cosa: la vita! (Lv 17,11). Radunato tutto il popolo, ne versò una metà sull’altare e chiese, solennemente, se voleva accettare l’Alleanza offerta loro dal Signore. Di fronte al loro “sì” corale, ebbe il coraggio di un gesto audace, primo nucleo della Comunione al calice: prese un catino e con un rametto iniziò a spargere il sangue sul popolo, intingendolo di rosso porpora. Il messaggio era chiaro: “fare alleanza” voleva dire entrare nella Vita di Dio, avere “lo stesso sangue”, diventare della sua famiglia (Es 24).

Ciò che non poteva certamente fare il sangue degli animali, oggi lo realizza invece il Sangue di Cristo, che tanto ha insistito su questo punto («Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete la vita in voi stessi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna […] dimora in me e io in lui» Gv 6,53-54.59) per poterci condurre al Cenacolo, in cui preso il calice, rinnovò l’antica alleanza mosaica: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza» (Mc 14,24; Mt 26,28; Lc 22,20; 1Cor 11,25).

Giustamente, tutti i racconti evangelici dell’ultima Cena evidenziano che quel sangue è «versato», ossia non deriva da una sorta di prelievo-Avis, ma è frutto di un sacrificio “fino al sangue”, totale (olocausto: dal greco olos = tutto; kaustos = bruciato, consumato), come quelle che fece compiere Mosè, ossia di una vita donata. Ciò perché nell’Antico Testamento la vita poteva essere riscattata solo da un’altra vita, nel senso di “vita per vita” per cui la vita umana può essere salvata, perdonata e divinizzata solo dal sangue di Cristo «prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue» (Rm 3,25), proprio perché «senza spargimento di sangue, non c’è perdono» (Eb 9,22).

Ora,nella Comunione al calice «si esprime più chiaramente la volontà divina di ratificare la nuova ed eterna alleanza nel Sangue del Signore» e si rende più evidente il segno del banchetto eucaristico (OGMR 281); ragion per cui la Chiesa desidera vivamente che i fedeli facciano la Comunione al calice, come partecipazione al sacrificio di Cristo (OGMR 85).
Che la Comunione al calice non sia un “doppione” di quella al Corpo di Cristo è sempre stato chiaro per i cristiani, che l’hanno fatta fino al XIII sec. Anzi, di fronte a certi vescovi che non comunicavano i fedeli al calice, si scagliavano Leone Magno (>una sacrilega simulatio! Discorso 42) e papa Gelasio (V sec.): «Costoro, o ricevono per intero i sacramenti o se ne astengano per intero; la divisione di un solo e identico mistero non può farsi senza grande sacrilegio» (Epistola 37,2).

Cosa accadde, allora, dal XIII sec. per far perdere e quasi dimenticare la Comunione al calice dei fedeli? Un insieme di cause: la diminuzione delle Comunione in favore della sua “visione” nel momento dell’elevazione e dell’adorazione; il sorgere degli eretici secondo cui la sola comunione al Corpo non era sufficiente alla salvezza e Cristo era interamente presente solo in entrambe le specie; l’uso e l’abuso della teologia tomista nella predicazione di francescani e domenicani, secondo la quale Cristo è tutto presente sia nel pane sia nel vino e che in alcuni casi sarebbe bastata la Comunione al calice solo da parte del sacerdote a nome dei fedeli; una maggior praticità del pane.

Fu in questo frangente che il Concilio di Trento (XVI sec.), «spinto da gravi e giusti motivi approvò la consuetudine di comunicare sotto una sola specie», ribadendo in sostanza le tesi tomiste (DS 1726-1733).
È chiaro che il Concilio Vaticano II ha avuto un coraggio da leone nel voler ristabilire, secondo la tradizione dei Padri, la Comunione al calice, tra quegli elementi della liturgia che «col tempo andarono perduti» (Sacrosanctum Concilium 55.50).
La volontà del Concilio si sta attuando gradualmente, a mano a mano che progredisce la consapevolezza dei fedeli, a cui tutti i documenti sull’argomento richiedono una appropriata catechesi per non ricadere negli errori di “Trento” (da OGMR 282 a Redemptionis Sacramentum100).

In Italia la possibilità di fare la Comunione al calice è pressoché estesa ad ogni Eucaristia (OGMR 283; Principi e Norme Messale Romano, Precisazioni Cei, 10; CEI, Istruzione Sulla Comunione Eucaristica, 13), purché non ci sia pericolo di profanazione e i fedeli siano preparati.
Si può ricevere bevendo direttamente al calice (uso più antico), per intinzione o con un cucchiaino (uso orientale) o una cannuccia(OGMR 286; PNMR 243-252; RS 103-104); il calice o la pisside possono essere sorretti anche da ministri straordinari dell’eucaristia (OGMR 284; PNMR, Precisazioni Cei, 11).

Concludo prendendo a prestito gli occhi innocenti e acuti di un bambino. A Messa con la mamma, guarda attento il sacerdote e, quando questi si comunica al calice nota che beve tutto il vino consacrato. Rivolgendosi stupito alla mamma esclama: «Mamma guarda! Ha detto “bevetene tutti” e poi l’ha bevuto tutto lui!».

Elisabetta Casadei