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“La boxe aiuterebbe tanti ragazzi”

La sua casa è proprio sul confine tra due comuni.

Quando è in cucina si trova a Longiano, pochi passi più in là, in salotto, è a Savignano. E proprio lì, vicino al divano, Matteo Signani ha una bacheca dove custodisce gelosamente i suoi trofei: sei medaglie d’oro, che rappresentano i sei titoli italiani, categoria pesi medi, e soprattutto l’oro Europeo conquistato a Trento. Pensare che il Giaguaro, questo il soprannome che si porta dietro da appena maggiorenne, che nella vita di tutti i giorni è Guardia Costiera di stanza alla Capitaneria di Porto di Rimini, la boxe non la conosceva neppure.

Giusto?

“Giustissimo. Da piccolino, i miei genitori, mi hanno portato subito a fare nuoto perché si diceva che era lo sport più completo. Solo che si faceva una gran fatica e così mi sono buttato sul calcio. Ma avevo dei piedi quadrati e l’allenatore mi faceva fare solo dei gran giri di campo.

Non ero felice, però continuavo perché era l’unico momento dove mi potevo scaricare un po’.

Almeno fino al fattaccio”.

Ossia?

“Diciamo che da giovane non ero proprio uno stinco di santo. Oggi, probabilmente, mi si definirebbe un bulletto. Avevo preso di mira il mio vicino di casa, Davide. Poveretto, era la mia vittima preferita, gli facevo di tutto. Spesso gli allungavo anche due ceffoni. E così, un giorno, suo padre bussò alla nostra porta, e mi disse che dovevo smetterla e mi indicò una palestra di Santarcangelo dove andare a scaricare la mia rabbia «lì fanno boxe, quello è il tuo sport». E così con mia mamma decisi di andare a vedere”.

E…?

“E mi innamorai subito di questo straordinario sport.

Anche perché ebbi la fortuna di trovare un maestro come Vasco De Paoli che mi fece capire che per tirare di boxe ci voleva grande spirito di sacrificio e una gran voglia di mettersi alla prova. Fisicamente, ma anche psicologicamente. Ho ben in mente la prima immagine che mi si aprì davanti agli occhi quando varcammo la porta: c’erano un sacco di ragazzi. Ma mi bastò poco per capire che quello sarebbe stato il mio sport”.

Si ricorda il suo primo incontro?

“E come potrei scordarmelo! Avevo 16 anni e gareggiai sul ring realizzato all’interno del Teatro Galli di Rimini. Ko tecnico alla prima ripresa. Da lì è partita la mia carriera”.

Se le dico 11 ottobre 2019, cosa mi risponde?

“Che è stata una delle serate più belle della mia vita. A Trento ho sfidato Gevorg Khatchikian, pugile olandese, ma di chiare origini armene, ma soprattutto di nove anni più giovane di me (Signani è un classe 1979).

Ricordo che i bookmakers mi davano 7-1, praticamente ero spacciato. Invece sono state dodici riprese tiratissime, combattute dove ho dato tutto me stesso e alla fine sono stato premiato con la conquista del titolo. Ricordo che i giorni successivi mi definirono un campione Europeo di passaggio”.

Invece…

“Invece un anno dopo, cioè lo scorso ottobre, in Francia, ho messo in palio il mio titolo contro il padrone di casa, Maxime Beaussire. Anche in questo caso ero stato presentato come la vittima sacrificale, anche perché il mio avversario arrivava da ben 29 vittorie consecutive. Invece alla prima occasione, gli ho rifilato un gancio sinistro mandandolo al tappeto. Si è rialzato, ma l’arbitro ha decretato il ko tecnico”.

Una bella soddisfazione.

“Bellissima, non bella. Perché a 41 anni in pochi ci credevano.

Forse solo io e il mio gruppo.

Invece ho dimostrato che con la voglia, la pazienza e soprattutto tanto sacrificio si possono ottenere grandi risultati”.

Adesso, il Mondiale?

“Magari, è il mio sogno. Ma per avverarsi servono che si infilino diverse cose. Non è così facile e così scontato. Vediamo, io non ho ancora smesso di crederci”.

Matteo, ma perché il Giaguaro?

“È una storia lunga e bisogna fare un bel balzo indietro nel tempo. Diciamo che io, a scuola, non sono mai stato un asso. E così, a 17 anni, cioè un anno prima della normale chiamata, mi sono presentato a fare la classica tre giorni per i militari.

Sono andato a Bologna, ma sul foglio che ci consegnarono, scrissi che volevo far parte degli incursori. E così dopo trenta giorni di visite e di test dove arrivai praticamente primo in ogni campo, mi mandarono a La Spezia a fare l’incursore. Lì, però, incontrai un Ammiraglio che volle conoscermi e mi disse che secondo lui dovevo fare l’Accademia Militare. Decisi di seguire il suo consiglio e feci quattro mesi durissimi sull’isola della Maddalena. Lì c’era un ragazzo più grande di me che era considerato il numero uno in tutte le prove che faceva, appena arrivai, sbaragliai il campo e così mi diedero il nome del Giaguaro. Perché ero veloce e deciso. E me lo sono portato dietro nel mondo della boxe”.

Consiglierebbe la boxe ai ragazzi?

“Non solo a loro, ma anche a tanti genitori. Capirebbero davvero il valore e il significato del termine sacrificio. Invece vedo le nuove generazioni e mi viene un gran nervoso: non hanno voglia di impegnarsi in niente, non hanno voglia di faticare. Tutti davanti allo smartphone o alla Playstation. E il brutto è che molti papà e mamma dicono poverino…

Poverino un corno! La boxe per tutti loro sarebbe un insegnamento di vita importantissimo. È uno sport violento? No, è uno sport nobile, che è ben diverso”.

L’ultima domanda: sul ring combatte per mettere ko l’avversario, nella vita, invece, salva le persone in mare.

“Mi è capitato un paio di volte di salvare nuotatori inesperti o che erano rimasti coinvolti in un naufragio. Proprio per questo, in Francia, ho dedicato la vittoria al collega Aurelio Visalli che ha perso la vita a fine settembre, per salvare due ragazzi”.