Home Vita della chiesa L’antico apre al nuovo. I due testamenti della fede

L’antico apre al nuovo. I due testamenti della fede

Un giorno morì un signore molto benestante e lasciò ai suoi amati 12 figli, ben due testamenti: il primo non poteva essere eseguito senza il secondo e questo senza il primo. Venuto il giorno fissato, i figli si recarono dal notaio tutti trepidanti, ansiosi e impazienti di conoscere le ultime volontà dell’amato padre. Appena il notaio aprì la busta, calò nella sala un grande silenzio e gli orecchi di tutti si fecero più fini di quelli di un gatto.
È ciò che accade (o dovrebbe accadere) ogni volta che nella Messa domenicale si legge la I lettura durante la Liturgia della Parola. Questa lettura è quasi sempre tratta dall’Antico Testamento, che consente di comprendere la salvezza di Cristo annunciata nel Nuovo Testamento, proclamato nella II Lettura e, soprattutto, nel Vangelo. L’Antico, infatti, annuncia in figure e simboli la venuta e l’opera di Cristo, velato per esempio nelle figure di Isacco sacrificato da Abramo (Gn 22), di Giuseppe venduto dai suoi fratelli (Gn 37) e di Mosè; allo stesso modo il passaggio del Mar Rosso è prefigurazione del battesimo in Cristo (Es 14), così come l’esperienza della schiavitù in Egitto e dell’esilio in Babilonia, narrati da Isaia e Geremia, sono pre-figurazioni della nostra vita sotto il dominio del peccato.
L’Ordinamento del Messale Romano fa una sorta di zoommata su come debba svolgersi la I lettura, segno della sua importanza: «Terminata la colletta, tutti siedono. Il sacerdote in modo molto breve può introdurre i fedeli alla Liturgia della Parola. Il lettore va all’ambone e proclama la prima lettura dal Lezionario, già là collocato prima della Messa. Tutti ascoltano. Alla fine il lettore pronuncia l’acclamazione “Parola di Dio” e tutti rispondono “Rendiamo grazie a Dio”. Quindi si può osservare, secondo l’opportunità, un breve momento di silenzio, affinché tutti meditino brevemente ciò che hanno ascoltato» (OGMR, 128). Vediamo insieme nel dettaglio.

Tutti siedono: è l’atteggiamento dei discepoli di fronte a Dio che parla, come abbiamo già avuto modo di spiegare (vedi Catechesi: Seduti, 31).
La breve introduzione del sacerdote serve a presentare le letture, affinché possano essere ascoltate dai fedeli con più frutto. Con questo gesto il sacerdote fa comprendere che la Mensa della Parola è imbandita e che il tesoro della Scrittura sta per essere aperto (cf. OGMR, 57), proprio come accadde quel giorno ai 12 eredi dal notaio.
Il lettore va all’ambone, il luogo liturgico della Parola (vedi Catechesi: Ambone, 33), per prestare la sua voce a Dio (vedi Catechesi: Proclamazione, 32), poiché – non sarà mai superfluo ripeterlo – «nella Liturgia Dio stesso parla al suo popolo» (Sacrosactum Concilium 33).
Proclama la I lettura dal Lezionario, tabernacolo della Parola e navigatore nei meandri della storia della salvezza (vedi Catechesi: Lezionario, 29-30), già posto sull’ambone, perché la Parola è dono di Dio: nessuno la porta e nessuno la toglie. Questa lettura, come dicevamo, è quasi sempre tratta dall’Antico Testamento, ad accezione del tempo Pasquale, in cui si leggono gli Atti degli Apostoli sulla nascita della Chiesa primitiva (OGMR, 357; Ordo Letture Messale, 93-106); essa è sempre collegata con il Vangelo. È importante osservare l’ordine delle letture bibliche, perché è così manifesta l’unità dei due Testamenti e della storia della salvezza (compresa la nostra!); a maggior ragione, «non è permesso sostituire con altri testi non biblici le letture» (OGMR, 57).
L’acclamazione “Parola di Dio” (o espressioni simili) e la relativa risposta, concludono la proclamazione della I lettura. Ma qual è il loro significato? Chiudere la lettura con “Parola di Dio” (dal latino Verbum Dei), ha lo scopo di affermare chiaramente che ciò che si è ascoltato non è una parola umana (di Mosè, Salomone, Isaia o Ezechiele), ma veramente il Verbum Dei, che prenderà carne e sangue in Gesù Cristo, il Signore (al termine del Vangelo si dirà infatti: “Parola del Signore” e non più “Parola di Dio”). Come tale deve essere pertanto accolta: con maestà, dignità, gratitudine e riverenza. A tal fine, l’acclamazione può essere anche cantata.

La risposta “Rendiamo grazie a Dio” è anch’essa un’acclamazione, cioè un intervento breve dell’assemblea per manifestare adesione a ciò che si è ascoltato o a ciò che viene fatto nella liturgia; in altri termini all’opera di Dio (OGMR, 59; OLM, 125). Sono acclamazioni anche l’Amen, l’Alleluia, Ascoltaci Signore nella preghiera dei fedeli e Lode a te o Cristo, Annunciamo la tua morte.., ecc. Esse hanno lo scopo di coinvolgere l’assemblea e farla partecipare in maniera attiva alla Liturgia e non come mera spettatrice. Rispondendo “Rendiamo grazie a Dio” i fedeli esprimono anche onore alla Parola appena ascoltata, accoglienza e, soprattutto, gratitudine, perché ciò che Dio ha detto, siamo certi che lo compirà ancora con la nostra fede. L’espressione latina Deo gratias che la traduce, ben esprime questa gratitudine; essa era infatti un saluto fraterno e, in particolare, si diceva dopo aver ricevuto una buona notizia: Deo gratias! “Dio sia ringraziato!” o “Grazie a Dio!” si dice infatti ancor oggi.
A questo punto il silenzio è d’obbligo.

Elisabetta Casadei
* Le catechesi si tengono ogni domenica in Cattedrale alle 10.50 (prima della Messa).