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Isabella en travesti

Da sinistra Misha Kiria (Taddeo), Giorgi Manoshvili (Mustafà), Andrea Niño (Zulma), Vittoriana De Amicis (Elvira), Josh Lovell (Lindoro) - PH Amati Bacciardi

L’italiana in Algeri, primo grande capolavoro comico di Rossini, in un nuovo allestimento del ROF 

PESARO, 18 agosto 2025 – Dopo tanti ruoli ‘en travesti’ – da Tancredi ad Arsace, da Sigismondo a Malcolm – che a Pesaro l’hanno consacrata come punto di riferimento assoluto della vocalità rossiniana, Daniela Barcellona ha affrontato, per la prima volta sul palcoscenico del ROF, il personaggio di Isabella: quintessenza di una femminilità seduttiva e al tempo stesso fortemente determinata. Per capriccio della sorte, o scelta consapevole, la protagonista dell’Italiana in Algeri – nello spettacolo di questa edizione – diventa però un travestito, o meglio, una drag queen. Del resto Stendhal, tra i massimi estimatori del talento rossiniano, aveva definito il primo capolavoro comico del ventunenne compositore (1813) «una follia organizzata e completa»: presa alla lettera, l’affermazione dello scrittore è divenuta così una sorta di lasciapassare per le più stravaganti rivisitazioni.

La protagonista Daniela Barcellona (Isabella) – PH Amati Bacciardi

In una reminiscenza del ronconiano Viaggio a Reims, dove lo spettacolo cominciava all’esterno, la regista Rosetta Cucchi immagina così un furgoncino carico di vistose signore – abbigliate nei costumi di Claudia Pernigotti dai colori fluorescenti – che arrivano davanti al Teatro Rossini: ad attenderle dei militari che le deporteranno in Algeria, quasi come le prigioniere in Manon. La dimora di Mustafà, nella scena ideata da Tiziano Santi, è su due piani, mentre nella parete di fondo scorrono immagini marinare (video di Nicolás Boni). Lo spettacolo procede con una sua coerenza sulla falsariga del travestimento, che in fondo rappresenta il meccanismo teatrale per antonomasia, riuscendo a evitare il trash più smaccato. Isabella si rade collo e viso con il rasoio, invece il villoso torace di Mustafà viene depilato: una confusione di ruoli capace di mandare in frantumi il ridicolo machismo del Bey, tanto più che tutto lascia presagire una sua eventuale trasformazione in drag queen. Mentre la protagonista sta cantando Pensa alla patria, arriva poi il riferimento a un contesto più generale, attraverso le immagini che scorrono sulla parete di fondo con la registrazione di manifestazioni a sostegno di una libertà di espressione che, forse, può trovare spazio solo in palcoscenico (non a caso all’inizio del filmato sbuca il volto di Raffella Carrà, da sempre icona lgbt).

Un po’ storditi da questa visualità baracconesca, che contrasta con la stilizzazione musicale di Rossini, si corre il rischio di non cogliere l’implacabile rigore musicale dell’opera: dal finale primo, Nella testa ho un campanel, alla cerimonia che scandisce il rito del “pappataci”, così come dei tanti microingranaggi comici disseminati in partitura. Né la direzione di Dmitry Korchak (grande tenore rossiniano qui passato al podio) aiuta troppo a valorizzarla: dall’Orchestra del Comunale di Bologna ha ottenuto infatti sonorità poco idiomatiche sia per la scelta dei tempi sia per la gestione dei ‘crescendo’.
Fortunatamente la compagnia di canto è riuscita a compensare gran parte di queste mancanze. A cominciare dalla stessa Barcellona, che ha affrontato un ruolo assai impegnativo, soprattutto per un’interprete non più giovanissima: la perdita di omogeneità vocale passa però in secondo piano di fronte alla morbidezza del canto e all’espressività, quelle davvero intatte. Il mezzosoprano mostra poi una verve scenica insospettabile, grazie alla capacità di affrontare i desiderata registici sempre con grande ironia.
Accanto a lei Giorgi Manoshvili ha cantato la cavatina di Mustafà sfoderando le sue notevoli risorse: un’autentica vocalità da basso, che non gli ha impedito però di affrontare la scrittura ben più acuta di Già d’insolito ardore con esiti altrettanto positivi. Se Josh Lovell, scenicamente inappuntabile, non è apparso sempre adamantino nella tenorilità di Lindoro, possiede ragguardevoli mezzi il Taddeo di Misha Kiria, baritono comico davvero monumentale, cui forse gioverebbe un fraseggio con maggior ricchezza di sfumature. Puntuale in ogni suo intervento il soprano Victoriana De Amicis, la sottomessa moglie Elvira che si prende la sua rivincita sul marito trasformandosi nel finale in una dominatrice. Molto efficace il mezzosoprano Andrea Niño nei panni di Zulma, corretto l’Haly di Gurgen Baveyan.

Sarà comunque uno spettacolo da ricordare: paradossalmente, sul piano vocale. A fianco di una Barcellona che è stata fra le più emblematiche rappresentanti della seconda generazioni d’interpreti rossiniani, e che con la maturità è adesso passata ad altro repertorio, abbiamo ascoltato una nuova leva di cantanti che si sta affacciando alla ribalta per configurare l’ormai prossimo futuro. In un naturale passaggio del testimone.

Giulia  Vannoni