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Dittico insolito

Der ZAR, il baritono Domen Križaj (lo Zar) e il soprano Juanita Lascarro (la finta Angèle) - PH Barbara Aumüller

All’Opera di Francoforte un originale accostamento tra due opere brevi di Kurt Weill e Carl Orff nel divertente spettacolo di Keith Warner 

FRANCOFORTE, 4 maggio 2023 – Non c’è bisogno di trovare a tutti i costi dei legami tra due atti unici nati a distanza di quindici anni. Molto più stimolante puntare sulle differenze tra i due autori: Kurt Weill e Carl Orff, quasi coetanei, ma che non avrebbero potuto avere vicissitudini umane e artistiche più dissimili. Di famiglia ebrea, il primo ha siglato insieme a Brecht formidabili successi, pagati con l’ostracismo e in seguito con un esilio che – dopo le peregrinazioni europee – lo ha spinto a stabilirsi definitivamente negli Stati Uniti. Dedito soprattutto all’attività didattica e alla pedagogia (ha messo a punto un famoso metodo per l’apprendimento della musica), il secondo è stato invece benvoluto in patria, tanto da aver alimentato più d’un sospetto di collusione con il nazismo, seppure mai dimostrato.

Die KLUGE, una scena dello spettacolo – PH Barbara Aumüller

L’insolito dittico, allestito da Oper Frankfurt, era dunque incentrato su Der Zar lässt sich fotografieren (Lo Zar si fa fotografare), ‘opera buffa in un atto’ di Weill, e le ‘dodici scene’ di Die Kluge (La saggia), un apologo musicale di Orff definito nel sottotitolo come La storia del re e della donna saggia. Demiurgo dell’operazione Keith Warner, che ha realizzato uno spettacolo teatralissimo, puntando sulle componenti surreali e grottesche di entrambi i lavori: accentuandone la caustica e dissacrante ironia nel primo caso, l’elemento onirico e favolistico nel secondo.

Il regista inglese ha così enfatizzato gli addentellati con l’attualità, già evidenti nel libretto dello Zar (scritto da Georg Kaiser, drammaturgo le cui opere vennero bandite dal nazismo), strizzando l’occhio al presente: l’emiciclo che delimita l’atelier parigino di Angèle, dove il protagonista va per farsi fotografare, offre una panoramica di ritratti dei più eminenti politici, compresi quelli odierni tra cui troneggia inevitabilmente la ex cancelliera Angela Merkel. Basta poi qualche fulminante istantanea a far percepire il pericolo che incombe sullo zar – per ucciderlo, un gruppo di anarchici si sono sostituiti alla titolare dello studio fotografico e ai suoi collaboratori – attraverso l’evocazione di celebri omicidi storici: da Cesare ai Romanov a Kennedy. Se il tentativo dei quattro rivoluzionari è destinato a restare infruttuoso, nel frattempo lo zar è rimasto affascinato dalla finta fotografa con cui comincia a flirtare, innescando situazioni da pochade. Non bisogna dimenticare, del resto, che si tratta di una Zeitoper, secondo la moda di quegli anni (Der Zar andò in scena a Lipsia nel 1928): genere in cui abbondavano le allusioni alle comiche del cinema muto, come pure all’operetta, rivisitata però in forma del tutto parodistica.
Un cast di ottimi interpreti ha assecondato la regia, a cominciare dal protagonista, Domen Križaj, perfettamente a suo agio in un ruolo da baritono brillante, per continuare con la finta fotografa Juanita Lascarro, disinvolta anche in guêpière, e con l’altro soprano Ambur Braid, autentica proprietaria dell’atelier, forse ancor più incisiva. Da ricordare pure il caricaturale tenore Peter Marsh, capo degli attentatori, Karolina Makula e Helene Feldbauer, nei ruoli en travesti del finto e del vero ragazzo di bottega.

Die Kluge, che andò in scena a Francoforte nel 1943, non possiede invece la compattezza dell’opera di Weill e corre talvolta il rischio di sfilacciarsi per i numerosi dialoghi parlati che intercalano la musica, peraltro bellissima. Vi confluiscono forse troppi elementi: dalla risoluzione dei tre enigmi, comune a molte favole, alle allusioni shakespeariane, che si materializzano nelle figure dei tre vagabondi, al lungo episodio dell’asinaio, necessario a giustificare la conclusione. Grazie anche a un efficacissimo tratto visuale (scene di Boris Kudlička e costumi di Kaspar Glarner), Warner ne esalta l’elemento trasognato e surreale che deriva dal racconto dei fratelli Grimm, che ha ispirato lo stesso Orff per il libretto.
L’eccellente protagonista Elizabeth Reiter è un soprano di grande estensione vocale, capace di spiritosi falsetti per imprimere un carattere più malizioso e irriverente al personaggio. Viene infatti raffigurata come una marionetta dalle dimensioni progressivamente più grandi, fino a raggiungere quelle di una ragazzina dalla grossa testa. Quando, poi, si toglierà questa maschera ostenta modi anticonformisti e irriverenti, consentiti a chi può puntare sulla propria notevole intelligenza. L’affiancano il tagliente baritono Mikolaj Trąbka, il re, e il basso Patrick Zielke, il padre, efficacissimo nel suo declamato ansioso e parodistico. Il tenore AJ Glueckert, l’asinaio (e prima l’assistente dell’atelier) si è ricavato un efficace primo piano nelle sue lamentele contro l’arroganza reale, mentre il baritono Sebastian Geyer ha dato rilievo al personaggio del mulattiere, trasformandolo in un cammeo quasi da operetta. Camaleontico, nelle sue due opposte caratterizzazioni, un basso di lungo corso come Alfred Reiter: dalla macchietta del bodyguard dello zar si trasforma nella Kluge in lugubre carceriere con tanto di falce. Molto bravi e atletici in scena i tre vagabondi Andrew Bidlack, Iain MacNeill e Dietrich Volle, come fossero le tre facce di un unico personaggio.

La direzione di Yi-Chen Lin, alla guida dell’orchestra di Oper Frankfurt, ha impresso notevole vivacità all’esecuzione musicale. È riuscita a esaltare il polistilismo di Weill così come la fantasia strumentale di Orff, valorizzando l’accompagnamento percussivo che spesso ne scandisce i dialoghi parlati. Una lettura in perfetta sintonia con il divertentissimo allestimento di Warner. A proposito, la liaison des scènes fra le due opere c’è, eccome. Lo spettacolo si conclude infatti con il re e la saggia moglie che s’incamminano attraverso un obiettivo: nel segno della fotografia.

Giulia Vannoni